Gesellschaft | Reportage

Orgoglio e pregiudizio

Akin è un richiedente asilo, ha 29 anni e viene dalla Costa d'Avorio. Da qualche mese condivide un appartamento a Valas, in Alto Adige. E l'esperimento funziona.
Valas/Flaas
Foto: Salto.bz

Quella di Akin (nome di fantasia) è una storia come tante. Fino a un certo punto. Una storia di viaggi di fortuna attraverso l’impietoso Mediterraneo, di sbarchi in Sicilia, di demenze burocratiche e di pregiudizi molli. Un bollettino seriale a cui riserviamo altrettanta pietà episodica e, molto più spesso, malcelata assuefazione quando non distratti dalla fanfara della xenofobia, dimenticando una perpetua e sgualcita banalità, ovvero che non esistono risposte semplici a problemi complessi. 

Akin ha 29 anni, è originario della Costa d’Avorio, vittima di conflitti etnici fugge dal suo paese e arriva in Libia. Ha con sé moglie e figlio di 7 anni i quali, vedendo il barcone malandato e stipato di migranti, impauriti decidono di tornare indietro. Akin invece deve proseguire e se l’intimo imperativo non bastasse ci pensano gli scafisti a convincerlo: “Se ti imbarchi almeno hai il 50% di possibilità di cavartela, altrimenti ti ammazziamo qui, adesso”.

Ci mette a parte di tutto questo con una certa ritrosia, Akin, lo sguardo stanco di uno che sembra avere sulle spalle vent’anni di più. Del passato preferisce non parlare. Anche l’arrivo in Italia non è stato privo di complicazioni, “al momento di registrarmi hanno sbagliato a scrivere nome e data di nascita. E ho dovuto insistere a lungo perché venissero corretti. Mi sono accorto che a molti di noi veniva segnato, sbrigativamente, il 1° gennaio come data di nascita, e non ci ascoltavano se tentavamo di protestare”, scuote la testa ma poi sdrammatizza: “È andata così, vuol dire che il primo dell’anno daremo una enorme festa di compleanno collettiva”.

 L’ho fatto per dimostrare che non c’è da aver paura, paura di cosa, poi? Queste persone cercano solo una possibilità (Magdalena Windegger)

Akin, che da qualche tempo si è stabilito in Alto Adige facendo domanda di protezione internazionale (una pratica ancora aperta), dopo la temporanea permanenza all’Hotel Alpi e Casa Aaron a Bolzano oltre che a Vipiteno, dal primo ottobre condivide l’appartamento in affitto all’interno della canonica di Valas insieme a Magdalena Windegger, operatrice della Caritas che si occupa di trovare alloggi per i migranti in uscita dai centri di accoglienza, come aveva già spiegato di recente su salto.bz. “Ho deciso di fare quest’esperienza come persona privata e non in qualità di impiegata della Caritas - tiene a precisare Magdalena mentre da Bolzano saliamo in macchina per la provinciale che passa per San Genesio, su fino al paese che conta 300 anime -, l’ho fatto per dimostrare che non c’è da aver paura, paura di cosa, poi? Queste persone cercano solo una possibilità”.

Certo non tutti hanno accolto con entusiasmo questa convivenza. “Alcuni dei miei amici all’inizio erano diffidenti, poi quando lo hanno conosciuto e hanno passato un po’ di tempo insieme a lui, al Törggelen per esempio, si sono ricreduti, altri invece hanno chiuso i ponti, non vengono più a trovarmi a casa perché con me vive un africano, dicono. Questo mi fa male, ma a lui dico di non prendersela”. Magdalena raccoglie i pensieri e poi aggiunge: “Credevo che fra noi sarebbero emerse molte più differenze culturali e invece non è stato così, abbiamo deciso che lui mi insegnerà il francese e io a lui il tedesco, ma finora non abbiamo fatto molti progressi”, confessa ridendo.

Arriviamo a destinazione intorno alle 20.30 di sera, ad accoglierci distese di silenzio e un pavimento di neve, con il campanile della chiesa che si staglia con una certa maestosità nel cielo limpido di fine inverno. Akin ci viene incontro, mentre i due gatti di casa gli formano degli “otto” intorno alle caviglie. Ci sediamo attorno al tavolo del soggiorno con i felini che pattugliano l’area. La cucina è il crocevia di Akin e Magdalena, a volte mangiano insieme, parlano di politica o degli ultimi fatti di cronaca “come quello di Macerata, un episodio che lo ha molto colpito”, riferisce Magdalena. Oppure si va a fare legna. E ci si divide le faccende domestiche. Le occasioni d’incontro tuttavia non sono molte. Akin esce di casa tutte le mattine e si mette in macchina alle 6.45, “altrimenti trovo traffico su via Roma”, e non torna prima delle otto passate, di sera. Fa il meccanico a Bolzano, specializzato sui mezzi pesanti e in Alto Adige di questi profili professionali c’è richiesta perché non sono tanti a saper fare questo mestiere specifico. Non è un impiego “clandestino”, in nero e sottopagato, ma un inquadramento lavorativo legale. Elemento fondante di ogni percorso d’integrazione. Akin ha un contratto a tempo indeterminato. “È un gran lavoratore, molto metodico, così come lo è a casa, è puntuale come un orologio con l’affitto, e sulle pulizie è più diligente di me”, scherza Magdalena. 

Succede che la gente non si voglia sedere vicino a me sull’autobus. E poi ci sono gli sguardi indiscreti. Quelli non mancano mai (Akin)

Di fronte alla canonica ci sono una caserma dei vigili del fuoco e una scuola elementare, dove peraltro insegnò, per un paio d’anni, anche il celebre poeta e scrittore Norbert C. Kaser. “Nessuno si è mai lamentato né è scattata alcuna ‘psicosi’ riguardo la presenza di Akin, come in altri contesti è avvenuto quando richiedenti asilo sono stati ospitati in alcune strutture limitrofe agli asili o ad altri istituti scolastici”, osserva l’operatrice della Caritas. La diffidenza degli abitanti però in alcuni casi si è concretizzata in richieste risibili, come quella di mettere le tende alle finestre “così da nasconderci agli occhi esterni - spiega Magdalena -. Ho dovuto spiegare che io e Akin siamo solo coinquilini, ma poi ho semplicemente realizzato che non mi interessa ciò che pensa la gente”.

Akin, che è cristiano, va in chiesa e lì ha conosciuto una famiglia molto aperta che lo ha fatto sentire a suo agio stabilendo con lui un contatto umano, andando con lui nel bar del paese “così da far abituare gli abitanti del paese alla sua presenza e cercando di eliminare le paure che nascono, ricordiamocelo, da entrambe le parti”, sottolinea Magdalena. 

Akin mi dice in un buon italiano che non vuole essere fotografato di fronte, perché “un giorno, quando la situazione si sarà stabilizzata, voglio tornare a casa mia, in Costa d’Avorio, riabbracciare la mia famiglia, e allora meglio per me se tengo un basso profilo”. Mi racconta che la tranquillità serafica della montagna gli piace, starsene in pace dopo una dura giornata di lavoro, “mi sento fortunato, a me è andata meglio che a molti altri”. 

Mentre fa danzare vorticosamente i suoi pollici sullo smartphone alzando di tanto in tanto, ma per poco, lo sguardo dallo schermo (Magdalena mi spiega che nella loro cultura guardare negli occhi è perlopiù segno di sfida) mi dice che “è il colore della mia pelle spesso a fare le presentazioni, mi ricordo che una volta stavo camminando nei pressi della stazione, a Bolzano, a un certo punto ho infilato le mani nelle tasche della felpa e due ragazzi, che erano poco distanti da me, si sono spaventati, forse pensando che volessi estrarre un coltello, la ragazza è corsa via urlando e ha attraversato la strada senza guardare. Allora mi sono avvicinato alla mia macchina, che avevo parcheggiato lì vicino, e ho tirato fuori le chiavi dalle tasche, solo per far vedere che non avevo cattive intenzioni. Succede anche che la gente non si voglia sedere vicino a me sull’autobus. E poi ci sono gli sguardi indiscreti. Quelli non mancano mai. Tutte cose che mi rendono triste e io non voglio sentirmi triste, tratto bene chi mi tratta bene”.

La certezza granitica è di voler uscire dall’invisibilità e se anche il buon esempio resta un’eccezione virtuosa, malgrado i proclami pro-integrazione, allora siamo solo “chiacchiere e distintivo”. Una conferma dell’incosciente superficialità e della quiescenza con cui finora il tema dell’immigrazione è stato trattato.