Kultur | SALTO WEEKEND

La voce dal ventre della balena

Emozionante spettacolo-concerto di Flora Sarrubbo tratto dal capolavoro di Herman Melville e andato in scena nel bunker di via Fago.
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Foto: Foto: Salto.bz

Per rileggere Moby Dick, uno dei massimi capolavori della letteratura in lingua inglese e quindi mondiale, occorre il coraggio di un bambino. Non è un caso che la figura maestosa e terribile della balena bianca sia stata fonte quasi inesauribile d'ispirazione per fumettisti di ogni epoca – mi vengono in mente all'istante Franco Caprioli e Dino Battaglia, oppure il recente bellissimo volume di Roberto Abbiati, autore di un “romanzo a disegni” edito da Keller – capaci di condensare l'immenso scritto di Melville in tavole che sono passate e ancora passeranno di mano in mano tra le generazioni. Ma la storia impressionante della caccia al cetaceo terribile non può essere mai astratta del tutto dalle parole che l'hanno suscitata, e per far questo occorre sempre tornare al testo, provando a cantarlo, più che a recitarlo, e anche a gridarlo, quando occorre. Recitazione, canto e grido, sono proprio questi i tre elementi orchestrati da Flora Sarrubbo, Joe Chiericati e Andrea Polato in uno spettacolo emozionante, andato in scena nel Bunker Hofer di via Fago martedì 6 e mercoledì 7 marzo.

Egli accumulava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta l'ira e di tutto l'odio provati dal tempo di Adamo, e poi, come se il suo petto fosse un mortaio, le sparava addosso la bomba del suo cuore bruciante

Già in un'altra occasione abbiamo parlato della particolare situazione di vedere un'opera di Flora nel bunker, e non ci ripeteremo. L'idea di scavare nel cuore della pietra un palcoscenico è evidentemente adatta, anzi particolarmente adatta ad esprimere la corrispondenza cercata. Funzionale e quasi ovvio per La Tana di Kafka, qui l'ambiente ipogeo è ancora più evocativo e focalizzante: l'unico richiamo all'elemento acquatico (che nel romanzo di Melville è ubiquo e avvolgente, si vorrebbe quasi dire primigenio) è infatti quasi esclusivamente nel dettaglio di uno sgocciolamento introduttivo, con un microfono piazzato in prossimità del piccolo lago sotterraneo nascosto alla fine di un cunicolo incendiato da un faro rosso. Non sulla superficie increspata o burrascosa del mare, quindi, ma direttamente dal ventre della balena riemergono le parole del libro, e il risultato è uno svuotamento in cui può liberarsi tutta la violenza del sentimento fondamentale di Achab: “Egli accumulava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta l'ira e di tutto l'odio provati dal tempo di Adamo, e poi, come se il suo petto fosse un mortaio, le sparava addosso la bomba del suo cuore bruciante”.

Ma abbiamo detto del testo. La traduzione utilizzata da Flora non è la celebre versione del capolavoro fatta da Cesare Pavese, bensì quella di Cesarina Minoli, pubblicata nel 1958 dalla casa editrice Utet, e successivamente da Mondadori. Citare il nome della traduttrice non è mera opera di giustizia. In questo caso è essenziale alla stessa comprensione dell'operazione, perché davvero il taglio delle espressioni prescelte, il loro contorno, è risultato determinante al fine di individuare nell'incastro tra la lettera, lo spirito e la voce tutta la micidiale potenza evocativa contenuta in Moby Dick. “An intense copper calm, like a universal yellow lotus, was more and more unfolding its noiseless measureless leaves upon the sea” - è solo un esempio – che diventa “Un'intensa bonaccia color rame, come un giallo loto universale, distendeva sempre più sopra il mare le sue foglie immense e mute” ci fa capire come il lavoro sulla parola non è un espediente tecnicistico, bensì addirittura evocazione della matrice prelinguistica, della spaziatura che precede la differenza tra le lingue e le rende comunicanti, reversibili l'una nell'altra: “Come vuoto risuona la speranza, sciama da porta a porta l’impaurito dolore. Nel vuoto inizia la via della preghiera” (Brana Sumanac). Davanti al mistero della balena bianca è forse possibile sostare se non con il canto e la preghiera?

Melville è per gli oceani del mondo quello che Omero è per il Mediterraneo orientale

Flora è un'attrice bravissima, a tratti ieratica. Utilizzando la grana di una voce che si contrae e sale, si addensa e si distende, è riuscita a farsi in certi momenti persino “coro”, a disegnare insomma tutta la gamma di passioni che scuotono l'equipaggio della Pequod, sferzato dal delirio del suo capitano. Anche il lavoro di sintesi è perfetto. In poco meno di un'ora seguiamo l'imbarco di Ismael sul vascello fatale e il percorso che lo consegnerà al suo galleggiamento estremo, quando tutto è compiuto e non resta che lui a “potercelo raccontare”. L'accompagnamento musicale, in evidenza e tambureggiante a tratti, altrimenti più cauto e al servizio della voce, adeguato sempre. Ci sono stati momenti di commovente epifania, perché un'opera del genere è certamente stata redatta a partire da un'ispirazione debordante qualsiasi intento referenziale, ed è perciò epos puro, rendendo chiaro – l'ha scritto Carl Schmitt – come “Melville [sia] per gli oceani del mondo quello che Omero è per il Mediterraneo orientale”. Al fine di captare tutte le risonanze di questo epos, ecco allora che Flora si è posta sulla stessa traccia riscoperta da Carmelo Bene per tornare alla potenza della phoné, del suono padre e madre del senso: “Nel grande oblio dei palcoscenici d'oro, la parola fu musica, finché l'avvento dell'epos-euripideo-socratico rovinò la poesia tragica in dialettica”. Beati dunque coloro che hanno visto, beati coloro che hanno sentito.