Umwelt | Intervista

“L’educazione terra natura”

Liliana Dozza e il legame tra formazione e paesaggio al centro del seminario di Bressanone. Uno sguardo su scuola, immaginazione, tecnologia e crisi “come crescita”.
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Liliana Dozza
Foto: unibz

salto.bz: Liliana Dozza, docente di pedagogia e didattica a Bressanone, cos’è il legame tra educazione, terra e natura a cui è stato dedicato il convegno del 29 e 30 novembre alla facoltà di Scienze della formazione?

Liliana Dozza: la relazione tra educazione terra e natura si potrebbe descrivere in tanti modi. Il primo è che quando si fa educazione, sia nella famiglia che nella scuola, non si guarda solo dentro l’individuo, ma si sposta l’attenzione anche dal dentro al fuori dell’essere. La nostra appartenenza è sicuramente rivolta alla famiglia, al gruppo, ma sono fondamentali pure il paesaggio, il luogo dove stiamo, il territorio che sentiamo nostro. Viene da sé l’importanza di riconoscere questa connessione, dell’essere umano con l’essere del pianeta: il paesaggio che hai nel cuore è l’Heimat a livello locale. Da questa relazione siamo partiti nel convegno. È importante che la scuola apra lo sguardo al fuori, portando il mondo esterno dentro il processo educativo.

 

Cosa significa per il lavoro quotidiano degli insegnanti e degli educatori?

Anche le piccole cose sono importanti e sia gli insegnanti che i genitori devono dare attenzione ai dettagli quando si rivolgono ai bambini. Occorre metterli in condizioni di scoprire i piccoli elementi del reale. Conoscere è fare delle scoperte, porsi domande e soprattutto imparare a immaginare. Se un bambino ha delle curiosità e le allarga, lavora anche di immaginazione e di pensiero e torna all’esperienza più curioso. Questo concetto deve essere interiorizzato dal processo di formazione, assieme alla valorizzazione dell’aspetto emozionale.

 

Le emozioni contribuiscono all’apprendimento?

Di solito le scoperte hanno un colore emotivo. Tutto quello che si riesce a colorare di emozione, riguardo ai bambini e ai giovani, assume un maggiore spessore cognitivo. L’aspetto più concreto, legato alla terra, probabilmente rappresenta il modo migliore di lavorare con loro.

 

Il ruolo crescente della tecnologia e del digitale non è in contrapposizione con l’educazione focalizzata sulla natura?

Non direi in contrapposizione. In effetti, se usata in maniera invasiva la tecnologia, pensiamo all’uso del tablet, di certi strumenti digitali per i bambini, senza mediazione, è certamente qualcosa su cui riflettere. C’è una psicologa che amo, Anna Oliverio Ferraris, che dice che i bambini devono correre, saltare raccontare, devono avere una vita concreta. È vero però che le tecnologie sono l’oggi e il domani e possono essere preziosissime anche in un’ottica di sostenibilità. Non si possono pensare né la vita né la scuola senza tecnologia, bisogna invece pensare a un uso delle strumentazioni moderne che sia di sostegno alla vita, all’essere umano, piuttosto che al consumo e al dominio.

 

Consumo e dominio, diceva. L’educazione ci protegge da questi fenomeni connaturati all’umano?

Anche gli oggetti che consumiamo sono di obsolescenza programmata, le nostre vite sono di corsa, di scarto. La terra è considerata area di consumo, di controllo. Se si potesse imparare a prenderci cura di quello che abbiamo intorno e a provare senso di appartenenza, allora anche l’uso delle tecnologie, delle risorse che abbiamo potrebbe essere più equilibrato. Come individui, gruppi o Stati siamo soggetti da una parte a forze creative e costruttive, dall’altra a forze regressive e distruttive. Dobbiamo renderci conto che attraverso la cura possiamo cercare equilibri possibili.

 

Come ci si arriva?

Bisogna far sé che i bambini, i giovani imparino a immaginare. Solo immaginando delle soluzioni possibili si riesce a uscire dalla situazione attuale che è quella di una crisi di valori, di comunità, di appartenenza. Siamo in una società individualista. L’educazione invece non è soltanto istruzione, ma valorizza l’importanza di essere connessi agli altri, al territorio.

 

La crisi da cosa dipende?

Siamo in una società tecnologica, che avanza molto velocemente rispetto alla nostra capacità di comprendere quello che sta succedendo. Non possiamo contrapporre la tecnologia, ma capirne gli usi positivi. E anche gli insegnanti devono essere consapevoli che la generazione che abbiamo di fronte, chiamiamola X o digitale, impara in modo differente. Nella messa a punto degli ambienti, dei contesti di apprendimento non possiamo non renderci conto delle condizioni mutate.

 

Il senso di una caduta quindi dipende dalla nostra incapacità di capire il cambiamento in atto?

La crisi è un modo di rappresentarci la situazione attuale. Probabilmente dipende dalla nostra incapacità di comprendere proprio questa velocità che le globalizzazioni ci impongono e nel cercare di farlo ci muoviamo in maniera scomposta. Corriamo, ma non sappiamo in quale direzione stiamo andando. Sentiamo la premura di inseguire, ma i nuovi ritmi ci spiazzano, così il sovrapporsi delle identità.

 

C’è del positivo nella trasformazione in corso?

Come sempre in questi casi. Di fronte alle situazioni di crisi c’è la possibilità di superare delle barriere, di conoscere altri modi di vedere le nostre cose. L’educazione può fare questo, portarci a vedere le stesse cose che sono molto più complesse, da tanti punti di vista. Con i bambini si può lavorare proprio in tale direzione. Occorre dare più spazio alle possibilità di esperienza e immaginazione, alla scoperta. Anche la robotica può servire a immaginare soluzioni. L’importante è guardare a fondo nelle cose. Anche lontano e più avanti.

 

Il convegno che contributo ha dato per riorientare il processo di formazione?

Quest’anno nel seminario che ha avuto come sottotitolo “Io abito qui, io abito il mondo” ci siamo concentrati sulla cura del paesaggio esterno e sul senso di appartenenza. Dare valore a ciò che c’è fuori è il nostro modo di avvicinarci alla realtà. Il paesaggio è anche interiore ed è come la lingua madre, te lo costruisci dentro. Il contributo quindi, con tutta umiltà, è stato positivo. C’è stato un utile confronto tra studiosi e esperti e la giornata centrale è stata dedicata a laboratori e sessioni sulle ricerche e studi delle università italiane. Inoltre, abbiamo fatto parlare bambini e ragazzi: sono stati 134 i singoli studenti o classi che hanno partecipato.

 

Impegni per la prossima edizione?

Abbiamo già annunciato che tratteremo il tema dell’educazione sostenibile, “dell’io posso”. Dentro c’è anche tutto il tema della resilienza. Ci teniamo ad avere sempre sia il contributo di esperti che le voci di bambini e ragazzi delle medie e superiori. È  importante incontrare le differenti voci e generazioni. Il desiderio è allargare la collaborazione non solo tra scuola e università e musei, ma anche con le aziende e il mondo del lavoro.