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„There was a lot of fun!“

L’hammond player londinese Brain Auger sulla Swinging London, il suo amore per l’Italia, la band con i suoi figli e il suo concerto a Steinegg.
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Foto: yy
Non capita tutti i giorni di parlare con una leggenda della musica come Brian Auger, mitico tastierista britannico che ha calcato i palchi di mezzo mondo, accompagnando tutti quelli che hanno fatto la storia del rock. Nomi che non hanno bisogno di presentazioni, gente in ambito jazzistico come John McLaughlin, Billy Cobham, Tony Williams, Keith Tippett, mentre nel blues e nel rock parliamo di icone del calibro di Jimi Hendrix, Sonny Boy Williamson, John Mayall, Jeff Beck, Led Zeppelin, Eric Burdon, Rod Stewart, Julie Driscoll. 
Considerato, a torto o a ragione, uno dei padri putativi dell’acid jazz sviluppatosi a fine anni ’80 e consolidatosi nella decade seguente, l’hammond player londinese ha collaborato parimenti con artisti italiani come Mango, Giuni Russo e Zucchero Fornaciari, guidando ovviamente anche formazioni proprie, a partire dal supergruppo Steampacket fino a Brian Auger & the Trinity e, infine, l’Oblivion Express.
In tour in Germania con quest’ultima band ci risponde in italiano, lingua che conosce molto bene, poco prima di venire qui a esibirsi il 23 ottobre allo Steinegg Live Festival coadiuvato dal cantante del Carlos Santana Group, Alex Ligertwood che fu anche voce del gruppo di Auger nei Settanta.
 
Salto.bz: Sei londinese ma dove sei cresciuto precisamente?
 
Brain Auger: West London. Sono nato a North Kensington e sono cresciuto a Hammersmith, finendo poi in Leicester Square.
 
Molti musicisti tuoi conterranei sono usciti dagli istituti d’arte che all’epoca andavano per la maggiore: tu come ti sei avvicinato alla musica?
 
Sono autodidatta. In casa mio padre aveva una pianola che si poteva caricare con rullini di cluster e io imparai suonandoci sopra. A modellare il mio gusto musicale provvide invece mio fratello che aveva tredici anni più di me e una stupenda collezione di dischi jazz americani. Cominciai anch’io con quel genere e vennero poi le prime esibizioni nei caffè di Soho suonando il pianoforte, categoria in cui peraltro vinsi subito il poll annuale della rivista Melody Maker…
 
Quando un bel giorno, accadde qualcosa che cambiò per sempre la tua vita artistica…
 
Nel 1963 tornavo a casa attraversando Shepherd’s Bush dove c’era la mia bottega di dischi preferita e, passando davanti alla vetrina, dalla porta sento uscire un suono inusitato di organo, qualcosa che immediatamente m’irretì. Entrato scoprii che ascoltavano Back to the chicken shack di Jimmy Smith, un suonatore di organo Hammond che incideva per l’etichetta Blue Note. Fu un colpo di fulmine…
 
Imparasti subito a suonare l’Hammond?
 
In effetti la tecnica era diversa, andava soprattutto cambiata la maniera di affrontare gli accordi con la mano sinistra perché, rispetto al piano, l’Hammond ha un suono più fangoso. Poi dovevo adattare al nuovo strumento tutti gli standard jazz o r’n’b’ che avevo in repertorio.
La scena era incredibile. Tutti si conoscevano, suonando volentieri insieme, dando vita in sala prove o sul palco a jam session incredibili, senza gelosie degli uni nei confronti degli altri.
Ti aiutò in qualche misura a trovare la tua via l’atmosfera della swinging London che era già lì lì per venire?
 
Certamente, io mi sono trovato a sperimentare nuove tendenze musicali e nuove applicazioni del mio strumento con gente come Paul McCartney o gli Yardbirds: there was a lot of fun! La scena era incredibile, elettrizzante, c’erano moltissimi musicisti e tante occasioni per sentirli dal vivo. Tutti si conoscevano, suonando volentieri insieme, dando vita in sala prove o sul palco a jam session incredibili, senza gelosie degli uni nei confronti degli altri. Questa esperienza di suonare con persone che non si erano formate col jazz mi aiutò a uscirne: mi dissi che volevo gettare un ponte tra le due cose, il jazz e il rock, fino ad allora inconciliabili perché, si sa, i jazzisti erano e sono ancora molto snobby…
 
 
Dalle stelle alle stalle: nonostante questi pregressi eccezionali, già poco dopo la metà dei Sessanta incomincia la tua liaison con l’Italia, il paese che scimmiottava in leggero ritardo i generi musicali che tu avevi visto nascere e che presto sarebbe stato teatro delle gesta degli autoriduttori: nel 1969, infatti incidi al Bang Bang di Milano il 45 giri Gatto Nero…
 
No no, in Italia c’ero già venuto prima. Al ginnasio avevo studiato il latino e nel 1956, con un mio compagno di classe, partimmo in treno da Londra alla volta di Napoli. Ripercorrevamo nella nostra mente le rotte già battute dagli autori o i pittori romantici del passato che in Italia ci erano venuti tutti. Girammo il Mezzogiorno fino in Sicilia con le biciclette, per tornare a Londra appena sei settimane dopo. Nel 1967 mi sono sposato con una donna di Cagliari, Ella Natale, con cui ho da poco festeggiato le nozze d’oro. Mi sono fermato volentieri perché gli italiani erano socievoli e, a differenza degli inglesi di allora, erano molto aperti.
 
Ecco che così trent’anni dopo hai potuto conoscere Zucchero: ne valeva la pena?
 
È un mio grandissimo amico, simpaticissimo e che io ammiro molto. Lo spettro della musica in lui ha creato testi e canzoni che sono autentica poesia. Spazia dal rhythm’n’blues alla canzone napoletana e il Black Cat Tour del 2016, quando ho suonato con lui dal vivo, mi ha regalato tra le tante date ventidue serate all’Arena di Verona che sono state magiche, con più di 230.000 spettatori…
 
I jazzisti erano e sono ancora molto snobby.
 
A proposito di concerti, i tuoi figli suonano stabilmente con te nell’Oblivion Express: come hai fatto a convincerli?
 
Nessuna imposizione, alla musica ci sono arrivati di loro, senza impulsi da parte mia. Ascoltavano i miei dischi e soprattutto i musicisti che ci giravano sempre per casa. Mia figlia Savannah Grace canta e mio figlio Karma è diventato davvero un ottimo batterista.
 
 
Con l’avvento della tecnologia informatica è cambiata la tua maniera di comporre?
 
Not really! Funziona tutto alla solita maniera che è poi un mistero. Io, se sono tranquillo, sento che mi arriva una musica e allora provo con il pianoforte a tirarla fuori, combinandola con le idee che mi suggerisce lo strumento durante questa trasposizione. Ma ognuno ha il suo metodo segreto: Van Morrison, per esempio, si siede sul divano con la sua chitarra…
 
Come procede il progetto El Chicano, il supergruppo con Alphonse Mouzon, David Paich e Pete Escovedo, il cui cd si ventilava in uscita nel 2019?
 
È tutto fermo, non penso si farà nulla. Del gruppo fa parte anche il leader dei Passport, il sassofonista Klaus Doldinger e le cose sviluppate sinora mi parevano molto buone.