Wirtschaft | FER

Energie rinnovabili ed energie tradizionali

Analisi critica sul sistema energetico attuale a cavallo tra vecchie logiche e nuovi paradigmi
Hinweis: Dieser Artikel ist ein Beitrag der Community und spiegelt nicht notwendigerweise die Meinung der SALTO-Redaktion wider.

Le politiche energetiche nazionali ed internazionali paiono riorientarsi al passato. Non ci si aspettava certo che le potenti lobby del nucleare e degli idrocarburi sarebbero rimaste impassibili dinanzi all'inevitabile sviluppo delle Fonti di Energia Rinnovabile (FER); tuttavia la controffensiva in atto lascia davvero perplessi, dal momento che l'attuale congiuntura economica internazionale ed una normativa ambientale sempre più stringente dovrebbero suggerire a governi ed enti locali un approccio più favorevole al nuovo paradigma energetico. Non a caso, molteplici sono stati gli interventi che negli ultimi anni hanno stigmatizzato i sussidi alle FER. Il decreto legge 24 giugno 2014, n. 91, che prevede una pesante rimodulazione retroattiva degli incentivi sugli impianti solari di potenza superiore a 200 kW, è solo l’ultimo colpo di coda, in ordine di tempo, dello “schieramento ostile”. Il fenomeno oltrepassa i confini nazionali per assumere una dimensione internazionale. Quasi tutti i Paesi europei hanno rimesso mano ai loro programmi di incentivazione alle FER. Anche Spagna e Germania hanno avviato un progressivo programma di smantellamento dei rispettivi meccanismi d’incentivazione, mettendo a repentaglio la credibilità dell’intero sistema-paese. Ed è proprio alla rimodulazione dei sussidi alle FER messo in atto dal governo spagnolo di Rajoy che si ispira la spending review energetica all’italiana.

I numeri delle rinnovabili in Italia

Per poter comprendere la portata del fenomeno rinnovabili elettriche in Italia e soprattutto interpretare il senso delle recenti contromisure, è opportuno dare uno sguardo ai numeri. Dall'avvio del primo meccanismo incentivante di tipo “feed-in” (tariffa onnicomprensiva) denominato “Conto Energia” nel 2005, si è passati da un totale di 21 mila MWe di potenza rinnovabile installata, ai quasi 48 mila MWe del 2012 [Fonte GSE]. Se da un lato le FER hanno assunto un ruolo sempre più decisivo nell'approvvigionamento di energia a livello nazionale, dall'altro hanno sollevato non pochi problemi di ordine infrastrutturale ed economico. Il primo trimestre 2014 ha registrato infatti il raggiungimento della quota record di produzione nazionale elettrica da FER del 40% [Fonte Qualenergia]. L'impatto sul nostro sistema elettrico nazionale è stato rilevante. La c.d. “priorità di dispacciamento” di FER non programmabili come il fotovoltaico e l'eolico sta mettendo in difficoltà i produttori termoelettrici, erodendo loro consistenti quote di mercato. Nella complessa gestione della rete di trasmissione nazionale, la priorità alle FER non programmabili nasce dall'esigenza di favorirne la produzione assicurando nel contempo la sicurezza della rete. Il risultato è la sostanziale marginalizzazione delle centrali alimentate dalle fonti tradizionali, costrette a lavorare a basso regime e a spostare una buona parte della propria produzione durante gli orari di basso carico (generalmente dalle 20.00 alle 7.00), quando l'energia immessa in rete viene valorizzata ad un prezzo più basso rispetto a quello delle ore di punta. Due sono gli ordini di problemi che vengono rilevati: le compagnie che negli ultimi anni hanno investito in nuove centrali termoelettriche stanno subendo una sensibile contrazione dei margini previsti arrivando, in alcuni casi, a produrre in perdita. La crescita esponenziale delle rinnovabili ha di fatto scalzato il ruolo strategico delle centrali tradizionali; si aggiunga che i sussidi alle FER sono finanziati dagli utenti elettrici tramite una specifica componente inserita in bolletta e denominata “A3”.

Il Gestore del Sistema Elettrico (GSE) rileva che a maggio 2013 la componente A3 rappresentava circa il 18% dell’intero importo della fattura di un'utenza domestica con consumo medio di circa 2700 kWh l’anno. Dal 2009 al 2013, la componente A3 ha remunerato sussidi per un importo pari a circa 36 miliardi di euro (quasi 12 miliardi solo nel 2013), di cui 3,7 miliardi a copertura delle c.d. “fonti assimilate” (essenzialmente l’energia prodotta dall’incenerimento di rifiuti). Al netto di ulteriori interventi normativi retroattivi, la componente A3 continuerà a finanziare i sussidi almeno fino al 2033, con un importo annuo in discesa, man mano che i contratti di incentivazioni arriveranno alla loro scadenza naturale e la producibilità tenderà ad un calo fisiologico legata all’obsolescenza degli impianti. Alla luce di ciò, i detrattori delle FER puntano il dito contro l’insostenibilità economica degli incentivi, qualificando gli stessi come la causa principale dell’alto costo dell’energia elettrica in Italia. Ma le cose stanno veramente cosi?

La perdita di quote di produzione delle centrali termoelettriche è in buona parte imputabile alla cattiva programmazione da parte delle società di produzione energetica. Dal 2000 ad oggi, malgrado la tumultuosa crescita delle energie rinnovabili ed una strutturale contrazione della domanda, molte società hanno continuato ad investire nella costruzione di nuovi centrali, in particolare a ciclo combinato. Già nel 2006 Assoelettrica segnalava investimenti in nuove centrali termoelettriche per un valore complessivo di 25 miliardi di euro in massima parte finanziati da project financing erogati da istituiti bancari. Cosi l’Italia si ritrova oggi in una situazione di forte "overcapacity" a cui si è cercato di porre rimedio attraverso l’introduzione di c.d. capacity payment, entrata in vigore con un decreto del 30 giugno 2014. Questa nuova voce finirà in bolletta, andando a remunerare soprattutto le centrali a ciclo combinato alle quali si riconosce l’onere finanziario legato alla relativa flessibilità produttiva, soprattutto a seguito di una sempre più massiccia presenza delle fonti rinnovabili con priorità di dispacciamento. Presentata come necessaria a garantire la sicurezza del sistema elettrico al minimo costo, si stima possa costare agli utenti dai 500 agli 800 milioni di euro all’anno (Fonte Confindustria).

FER: non solo costi

Le obiezioni sugli ingenti costi legati al mantenimento di un sistema di incentivi alle rinnovabili si ridimensionano se si considerano una serie di aspetti di cui una seria analisi costi e benefici dovrebbe tener conto. Nel dibattito pubblico poco o nulla si dice in merito agli effetti positivi che la produzione di FER ha garantito in questi ultimi anni in termini di riduzione del Prezzo Unico Nazionale (PUN). Il PUN è l’indicatore di prezzo dell’energia elettrica elaborato dal Gestore del Mercato Elettrico (GME), deputato alla valorizzazione di mercato dell’elettricità immessa e prelevata tramite la rete nazionale e scambiata sulla Borsa Elettrica. Si è passati infatti da un valore di PUN medio annuo di 75 €/MWh nel 2006 ad uno di 63 €/MWh nel 2013, con una contrazione del 16%. Ricordiamo infatti che le rinnovabili hanno un costo del combustibile pari a zero. Tale contrazione è certamente legata alla flessione della domanda nazionale dell’EE e alla riduzione del prezzo del gas (principale combustibile del parco di centrali termoelettriche italiane). Tuttavia anche l’eccesso di offerta gas e la conseguente riduzione del prezzo è parzialmente riconducibile alla crescita delle rinnovabili che, come anticipato, hanno sottratto quote di mercato alla produzione termoelettrica. Recentemente il CNR ha pubblicato uno studio che conferma questa tendenza, mentre per il solo 2013 la società di consulenza Althesis ha stimato un risparmio netto in termini di riduzione di PUN pari a 1 miliardo di euro [Fonte Irex Report 2014].

Anche per gli aspetti indiretti si tende a dimenticare cosa ha significato per il sistema Paese la nascita di un parco produzione costituito da centrali alimentate ad energia rinnovabile. Quasi del tutto trascurata è la questione occupazionale. Il GSE rileva, infatti, come nel solo 2012 siano stati creati 190 mila nuovi occupati nelle settore delle FER, ripartiti tra diretti, indiretti ed indotto. Decisivo, inoltre, è il contributo delle FER alla riduzione della CO2; dal 2005 al 2013 l’ISPRA ha registrato una diminuzione di circa 142 milioni di tonnellate di CO2 . Sebbene questo risultato sia legato anche alle politiche di risparmio energetico, è indubbio che l’effetto di sostituzione delle centrali termoelettriche con quelle alimentate a FER abbia contribuito sensibilmente alla riduzione di CO2. Né appare convincente la tesi secondo la quale è la crisi la causa primaria della riduzione della CO2, poiché il processo di decarbonizzazione è partito ben prima dell’inizio della stessa [Fonte Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile]. Si stima cosi che dal 2008 al 2012 , in relazione agli obblighi che l’Italia ha assunto nell’ambito del Protocollo di Kyoto finalizzati alla riduzione dei gas serra, le FER abbiano consentito di risparmiare circa 800 milioni di euro [Fonte Qualenergia]. Non trascurabile è infine il contributo che la crescita delle FER ha assicurato allo Stato in termini di prelievi fiscali; quattro miliardi di euro è la stima calcolata solo sul 2011, tra prelievi diretti ed indiretti.

Alla luce di quanto riportato, appaiono irrazionali rispetto a qualsiasi buona programmazione economica gli interventi tesi a sabotare sistematicamente la crescita ed il consolidamento delle energie rinnovabili. Ma a ben vedere una logica esiste e si può provare a tracciarla. È quanto meno sospetto che alcuni dei più importanti organi di stampa nazionali abbiano subdolamente intrapreso la strada del boicottaggio alle FER. E appare ancora più sospetto se si considera che, oltre ad ignorarne i vantaggi economici ed ambientali, si taccia sulle inefficienze del mercato e sulle numerose “zone franche” garantite ad alcune categorie di consumatori elettrici. Si sorvola, per esempio, sul grosso risparmio che comporterebbe la posa e l’attivazione del cavo sottomarino di trasmissione elettrica tra la Sicilia e la Calabria. Un’opera ostacolata dalle beghe burocratiche ma considerata strategica per il Paese e che, superando l’annoso problema di congestione nella trasmissione dell’energia prodotta in Sicilia verso il continente, contribuirebbe ad una sensibile riduzione del PUN, per un vantaggio stimato in circa tre miliardi di euro l’anno [Fonte Sole 24Ore]. Intoccabili appaiono poi i privilegi acquisiti dai c.d. “energivori” in merito a trattamenti di favore come i c.d. “servizi di interrompibilità”, compensi garantiti ad una precisa categoria di grandi consumatori elettrici in cambio della disponibilità di vedersi interrompere la fornitura nell'eventualità che l'energia immessa in rete non basti. Per il solo 2013 questo compenso si stima sia costato ai cittadini circa 740 milioni di euro, una concessione decisamente discutibile se si considera che in un contesto di forte overcapacity (stimata intorno al 30%), non pare giustificata da alcuna necessità in termini di sicurezza per il nostro sistema elettrico. Si aggiunga infine che, come rileva il quotidiano on line Qualenergia, la flessione del PUN legata alla diffusione delle FER non è stata ribaltata sui consumatori, ma ha contribuito all’incremento dei margini dei grandi trader, forti di una posizione dominante in un mercato dell’energia che non è ancora pienamente competitivo. Appare, dunque, più chiaro come si sia deciso deliberatamente di non intervenire sui molti punti dolenti e come si continuino a legittimare agli occhi dell’opinione pubblica interventi anti-rinnovabili come necessari alla riduzione del costo dell’energia.

Non solo una questione “energetica”

Il caso italiano assume un carattere paradigmatico del conflitto in atto tra modelli energetici, riconducibili a loro volta a distinti modelli di potere. Il sistema energetico dei paesi avanzati è cresciuto centralizzando la produzione e la trasmissione. Lo sviluppo del capitalismo moderno non sarebbe certamente stato possibile senza questa capillare e centralizzata rete di produzione e distribuzione di energia. Sistema energetico e movimento di capitali sono due facce della stessa medaglia, in un rapporto simbiotico che oggi finisce per favorire la concentrazione della ricchezza nelle mani di chi possiede le capacità tecnico-economiche per pianificare l’approvvigionamento energetico di un Paese. Come afferma Elena Gerebizza, autrice del libro Energia e Finanza, “questa energia non è una sostanza magica inventata per superare la povertà, tenere al caldo i nostri nonni e illuminare le scuole di campagna. È soprattutto uno strumento per rendere la forza lavoro più produttiva, per controllarla e sfruttarla”. Il coinvolgimento di importanti istituti bancari nel capitale di alcune delle maggiori società che si occupano della costruzione e gestione di centrali termoelettriche ne è forse la prova più evidente. Ora che la c.d. “generazione energetica distribuita” da FER ha assunto un ruolo non più trascurabile, emerge in tutta chiarezza la contraddizione di fondo tra un sistema centralizzato ed un sistema distribuito potenzialmente “sovversivo”, perché tecnicamente in grado di neutralizzare qualsiasi forma di controllo sia produttivo che distributivo di energia. E gli interventi amministrativi e legislativi di questi ultimi anni paiono in tutta evidenza voler scongiurare il rischio di un trapasso verso un paradigma energetico che sotto molti aspetti assume i connotati di una rivoluzione energetica in senso democratico. Le cose forse non stanno proprio cosi. La ricerca, lo sviluppo e la produzione nel settore delle FER richiedono certamente grandi capitali, in una logica ancora profondamente capitalistica. Tuttavia quello che potrebbe cambiare è la consapevolezza di cosa significhi “energia”. Non più semplicemente un diritto che si acquisisce accendendo un interruttore, ma il frutto del lavoro di una tecnologia che impiega fonti abbondanti, inesauribili e pulite, slegando le comunità dalle logiche di sfruttamento minerario spesso causa delle peggiori catastrofi sociali ed ambientali. Abbiamo forse un'opzione migliore?