Gesellschaft | Territorio

Il futuro del vino

Intervista a Federica Randazzo, coordinatrice regionale di Slow Wine per l'Alto Adige. "Inizio a leggere, nel mondo del vino altoatesino, una capacità di sperimentare".
Federica Randazzo
Foto: Federica Randazzo

"Inizio a leggere, nel mondo del vino dell'Alto Adige, una capacità di sperimentare. E lungo questo sentiero vedo muoversi i vignaioli indipendenti e anche le cantine sociali". Federica Randazzo è la coordinatrice regionale di Slow Wine per il territorio alto-atesino, e salto.bz l'ha raggiunta al telefono per approfondire i segnali che arrivano dal territorio. 

 



salto.bz: Quest'anno avete assegnato 8 chiocciole e premiato complessivamente 33 etichette dell'Alto Adige. Quali elementi hanno caratterizzato le sessioni di degustazione?

Federica Randazzo: Ci ha divertiti e stimolati il fatto che alcune cantine, anche tra quelle storiche, hanno voluto "sfidarci", mandandoci come campioni d’assaggio non i soliti noti, ma etichette meno conosciute ma che consideravano rappresentative dell'annata 2017, per vedere se le avremmo apprezzate. Due o tre assaggi, in particolare, ci hanno davvero stupito. Ed è importante, per noi, vedere che le aziende non si accontentino più di "vincere facile", di cercare un riconoscimento quasi scontato con i vini la cui qualità è già nota, ma propongano etichette inconsuete, con personalità affascinanti e decise.

Ci sono, poi, le due nuove Chiocciole, che raccontano di due giovani vignaioli che operano questo positivo: non è un dato di ogni anno, infatti, l’assegnazione di nuove Chiocciole, un riconoscimento che guarda alla conduzione aziendale a tutto tondo, e non solo alla qualità dei vini proposti.

Infine, quello che sta emergendo, forse lentamente ma con decisione, e in particolare da parte delle nuove generazioni, è la volontà di fare un passo ulteriore: se l’alto livello qualitativo è ormai assodato, anche se non è mai scontato - e questo ci tengo a sottolinearlo in quanto c'è un grande lavoro dietro - l'esigenza che misuro in alcuni produttori è quella di oltrepassare il rigore enologico, pur racchiudendolo, per conquistare un’espressività più tridimensionale e profonda. 

Chi, secondo te, incarna questi principi?

Sono diverse le aziende che si stanno muovendo in questo senso, in particolare a livello dei vignaioli, dove si è creata una felice corrente di produttori un po’ ”anarchici”, di cui fanno parte ad esempio Urban Plattner e Christian Kerschbaumer, le due nuove Chiocciole altoatesine della guida. Sono realtà che si concentrano su vini originali, che a volte spiazzano l'assaggiatore, costringendolo a rivedere i propri canoni. È un movimento davvero interessante. Quest’anno ho potuto constatare, inoltre, come la sperimentazione avvenga anche a livello di cantine sociali, nonostante i kellermeister (i capo cantinieri) siano molto legati a un’ottica di riconoscibilità dei prodotti e, ancora di più, debbano rendere conto a centinaia di soci, cosa ovviamente non facile perché si tratta di mettere insieme teste con visioni diverse, talvolta molto conservative. 

È importante, per noi, vedere che le aziende non si accontentino più di "vincere facile", di cercare un riconoscimento quasi scontato con i vini la cui qualità è già nota, ma propongano etichette inconsuete, con personalità affascinanti e decise

Come leggi la relazione tra vignaioli indipendenti, che rappresentano appena il 5 per cento della produzione, e le cantine sociali che hanno fatto la storia del vino in Alto Adige? 

Si tratta di due realtà eterogenee, con esigenze diverse, spesso divergenti, ma che in qualche modo si completano e si stimolano a vicenda. Le cantine sociali sono state sicuramente fondamentali nella storia della qualità dei vini altoatesini, hanno dato tanti input, sia in termini di scelte in vigna e in cantina, che in termini di marketing. Si tratta di una spinta che continua ancora oggi. È notizia di fine agosto, ad esempio, che Wine Advocate di Robert Parker ha assegnato 100 punti al Gewürztraminer Epokale 2009 di Cantina Tramin. Un caso unico perché non solo si tratta del primo bianco italiano, ma anche del primo vino di una cantina cooperativa a ricevere il massimo punteggio. Inoltre, in questi anni sono state proprio le cantine sociali a battere nuove strade, uscendo sul mercato con etichette ambizione da lungo invecchiamento e con prezzi importanti. Le cooperative hanno avuto un ruolo anche nel mantenere viva la piccola agricoltura locale: pagando bene le uve hanno infatti consentito a coloro che avevano poche vigne di non venderle. In questo contesto diversi contadini hanno potuto conservare un legame con la terra, un legame che è andato man mano rafforzandosi, fino a condurli talvolta a investire in una propria attività vitivinicola. Pensiamo ad esempio alla Valle Isarco, dove molti produttori - oggi alla prima o al massimo alla seconda generazione - provengono da una storia di conferitori sociali. Chiaramente questo non vale per tutto l’Alto Adige, che è un territorio troppo eterogeneo per essere racchiuso in poche battute, un territorio dove troviamo anche tante realtà familiari eccezionali, che portano avanti la viticoltura da generazioni e che hanno percorso strade parallele e indipendenti dalle cantine sociali. Ciò che trovo davvero interessante, però, se posso permettermi una generalizzazione, è la capacità del mondo vitivinicolo altoatesino di andare avanti in modo compatto, nonostante le differenze, e questo anche grazie al ruolo centrale del Consorzio Vini Alto Adige. 

Nessuna ombra nella tua analisi?

Il fatto che si sia affermata un’immagine comune di vini altoatesini, un’immagine forte e sinonimo di qualità, è sicuramente un dato positivo per tutto il territorio ma può essere anche un po’ limitante. Il rischio, infatti, è che non lasci abbastanza spazio all'emergere di un modello di produzione che si distacchi dal "coro". Oggi, però, la spinta in questa direzione si avverte ed è sempre più vivace.