Kultur | Salto Afternoon

Di giorno archeologia e di notte...

...rock’ n roll… Una conversazione con Nico Aldegani che pratica archeologia sperimentale facendo workshop nelle scuole e non solo, e suona le tastiere.
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Foto: Foto: Salto.bz

Che cosa significa “archeologia sperimentale”?
Ottima domanda! Ho già la risposta pronta datami come definizione dai ragazzi con cui di recente ho fatto un workshop: “ricreare con le stesse tecniche e gli stessi materiali del passato i manufatti di diverse epoche”. Un’ottima definizione, per me, poi va detto che per ognuno ha diversi significati.

Te l’hanno detto dei ragazzi, che lavoro fai con loro?
Faccio attività di archeologia sperimentale per le scuole, per musei, per gruppi di lavoro scientifici. Ad esempio, questa primavera col mio collega Alessandro Potì siamo stati invitati a Senigallia da Fosforo, che si occupa di scienza e la sua divulgazione, per mostrare la fusione del rame. Il tutto si svolgeva all’interno di una manifestazione più grande, dove oltre al grande pubblico partecipavano anche le scuole per fare un workshop assieme a noi e conoscere i diversi materiali.

Parliamo della fusione del rame: per me una realtà assolutamente sconosciuta, sebbene posso immaginare cosa sia, ma ai ragazzi come la fai capire?
Lavoriamo secondo due modalità: la prima riguarda la presentazione in classe, dove facciamo costruire agli stessi ragazzi i manufatti che servono per poi farla, ossia crogiuoli, soffiatoi (che servono per aumentare la temperatura all’interno del fuoco) e stampi, per successivamente passare all’attività vera e propria usando questi stessi manufatti, con tutto ciò che può comportare lavorare con bambini di otto anni, per esempio. Ma serve per far comprendere loro come si poteva fare - e si fa - la fusione del rame. L’altra modalità, quella più scientifico-professionale, ovviamente meno interattiva, riguarda noi in un contesto pubblico in cui siamo davanti alla fornace, abbiamo le nostre ricostruzioni e facciamo vedere come si fondeva il rame nel passato. Ho provato quindi a mostrare come, secondo noi, riuscirono a portare il rame dallo stato solido a quello liquido e poi a colarlo all’interno di stampi. Tutto questo viene fatto senza l’ausilio di tecniche moderne!

Come si fa, però, a sapere come facevano davvero in passato?
Tutto parte dallo studio del materiale, quindi dei reperti a disposizione, e nell’area alpina siamo fortunati perché i reperti riguardanti la metallurgia sono molti. Poi si passa alla parte ricostruttiva, dei manufatti che servono per la fusione di per sé: qui ci sono quelli conservati - quindi ancora una volta, crogiuoli, stampi, soffiatoi - e quelli non conservati, che è la parte più complessa. Per esempio, i mantici che servono per la fusione sono stati costruiti da noi con la pelle e per arrivarci siamo partiti dalla pelliccia di animali appena uccisi: per cui abbiamo imparato a conciare – un’esperienza terribile! – poi questi mantici vanno cuciti e bisognava impratichirsi con le tecniche del cucito, gli aghi, il filo, capire quali materiali utilizzare.

Poi, essi vanno collegati con tubi di legno e nasce la domanda: quale legno usare…? Abbiamo scelto il sambuco perché bucato all’interno, ma andava svuotato comunque all’interno, tutto a mano! Quindi andavano creati i collegamenti con il soffiatoio o ugello, sempre in pelle, per cui ancora tagliare e cucire! Infine bisogna avere una mescola di argilla adeguata per supportare le altissime temperature che sprigionano. Spesso ci chiedono quale temperatura raggiungiamo nella nostra fornace e la risposta è: di sicuro oltre i 1100 gradi, affinché il rame si fonda! In realtà, riusciamo a superarla di qualche centinaia di gradi…, dove va ricordato che la nostra fornace non è altro che un buco scavato nel terreno in cui ci troviamo, riempito di carbone e isolato con un po’ di argilla!

All’interno va piazzato il crogiuolo, al suo interno i minerali di rame, dato che facciamo sperimentazione anche con la malachite, con l’ossido di rame - e tra un po’ proveremo anche con sulfuri di rame, un po’ più ambizioso come progetto. Dopo, il crogiuolo con il rame liquido viene tolto con pinze di legno e colato negli stampi, dove questi ultimi sono la parte tecnologica più importante nella fase finale. Abbiamo usato anche qui diversi materiali, dall’argilla alla pietra, passando per la sabbia. Naturalmente, se quelli di sabbia venivano usati o meno nella preistoria, non lo sapremo mai, visto che si distruggono… Abbiamo usato anche stampi in legno.

Tu fai anche musica rock, per cui mi chiedo come riesci a “fondere” i due mondi in cui vivi: quello contemporaneo della tua musica e quello dei tempi dei tempi in cui ti immergi quasi quotidianamente?
Fino a qualche anno fa mi sono occupato anche di archeologia musicale, dove le due cose si erano unite, la passione per la musica e per l’archeologia. Poi per varie vicissitudini quella carriera si è interrotta ed è rimasto il rock, per quanto riguarda la musica. Convivono bene questi due ambiti, in quanto li tengo ben separati e riempiono anche due momenti separati della mia vita: di giorno archeologia e di notte rock’n roll…

Suona interessante! Riesci a trasmettere anche ai ragazzi questa fusione tra l’oggi e il passato? Quale eco hai da parte loro nei tuoi workshop?
L’archeologia sperimentale ha di bello che ti mette di fronte alle problematiche che l’uomo ha cercato di risolvere nel passato. Noi siamo gli stessi uomini che l’hanno fatto migliaia di anni fa. Quando dai in mano a queste nuove generazioni della pietra, gliela fai scheggiare, glielo fai fare come si faceva migliaia di anni fa, crei un ponte. Non so come spiegare, in fondo sono le stesse mani che lavorano quella pietra, sono mani di oggi e al contempo sono le stesse di tanti anni fa! Credo che sia proprio questo che risvegli qualcosa all’interno dell’animo che fa dimenticare il tablet, internet o i supporti video. Non ci si domanda più in che epoca storica siamo, si affronta il problema che si ha davanti, e questo fatto è rimasto ben radicato nel nostro essere. Lo stesso vale per altri materiali come, ad esempio, la ceramica. Penso che non vai a vedere in rete come lavorarla, lo fai e basta! Ecco che l’archeologia sperimentale riesce ancora a catturare l’attenzione dei giovani, nonostante l’invasione del mondo virtuale e digitale.

L’interesse per la storia, quindi – tanto per toccare un altro luogo comune, ossia che i giovani di oggi sanno poco del passato – tu che immagine ti sei fatto a proposito?
Domanda tosta, questa. Ho la fortuna di lavorare soprattutto nelle primarie e nell’ambito della preistoria. Vuol dire che sono menti vergini di storia, non sanno e sono giustificati nel loro “non sapere”. Quando vai a lavorare con le superiori o con coloro che dovrebbero ricordarsi qualcosa, spesso ci si ritrova davanti occhi spalancati o sguardi vacui, quando si nominano certi argomenti di storia. Effettivamente, per quello che riguarda l’archeologia di cui mi occupo, dunque la preistoria, ci sono delle grandi falle in queste generazioni. Soprattutto perché essa è la parte più difficile della storia: non c’è niente di scritto e chi deve insegnarla ha non poche difficoltà a trasmetterne il significato. Visto che viene trattata quasi unicamente nelle scuole primarie, ci troviamo di fronte persone che la sanno a livello di scuola primaria. Noi lavoriamo esattamente in questa direzione: portiamo a conoscenza la preistoria e altre parti dell’archeologia, quella classica, la nascita della scrittura, la fattezza degli affreschi in pittura, e lo facciamo poi fare a più fasce di età e in più scuole. Facendo dunque un lavoro di reminiscenza, per far ricordare ciò che di sicuro è già stato sentito almeno una volta…

Che ne dici se a questo punto lanciamo una proposta al nuovo governo: inserire nei curricula scolastici almeno un laboratorio di Archeologia sperimentale, proprio per risvegliare nei ragazzi questo senso per la manualità e per la storia di cui dicevi prima?
Sarebbe bello, e in un certo senso ci stiamo già lavorando… Alcune scuole di Bolzano che hanno iniziato a collaborare con la nostra Alpine Experimental Archaeology hanno inserito nel loro Pof questi laboratori e abbiamo imparato che una volta entrati in questi Pof, loro possono attivarli quando vogliono. All’inizio eravamo partiti un po’ in sordina con singoli progetti, poi alcune scuole lo hanno scelto per far parte del loro programma scolastico annuale: una iniziativa, questa, che si potrebbe davvero estendere a livello provinciale.