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La DOPPIACASA di Anita Pichler

Presentata a Bolzano la bellissima traduzione del volume “Beider Augen Blick” della scrittrice sudtirolese, luccicante sabbia che ci fa vedere di più.
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Foto: Foto Salto.bz

A cosa assomiglia la prosa della scrittrice sudtirolese Anita Pichler, qual è il primo aggettivo che viene in mente? Personalmente penso alla sabbia, o a qualcosa di parimenti sfuggente. Qualcosa che tentiamo di afferrare, come il tesoro luccicante nascosto nella caverna di cui parla Maeterlinck, ma che non riusciamo mai a prendere, e ogni volta, quando riemergiamo dalle profondità dell'abisso, resta laggiù, a brillare immutato. L'editore Aldo Mazza – al quale va il merito di aver pubblicato per le sue Edizioni alphabeta Verlag questo secondo piccolo volume di prose, Di entrambi gli occhi lo sguardo, Beider Augen Blick, dopo aver già dato alle stampe Come i mesi l'anno – ha parlato della necessità di un'intonazione particolare che il lettore deve compiere quando prende in mano i testi della Pichler: “Per apprezzare i lavori di Anita occorre una disposizione apposita, un abbandono al flusso di frasi che vengono in un certo senso disposte per trasportare chi le legge in una dimensione molto diversa da quella che abitiamo di solito”. Un concetto ribadito anche da Helena Janeczek, l'acclamata autrice del libro La ragazza con la Leica, vincitrice del Premio Strega, che conobbe anni fa Anita Pichler, a Venezia, e ha firmato la bella postfazione: “Scrivere, per Pichler, significa sempre tradurre, sconfinare, aprirsi uno spazio che non esiste altrove, uno spazio dove segni e significati si misurano con il limite costitutivo di ogni atto di parola”.

A presentare Di entrambi gli occhi lo sguardo, venerdì 25 gennaio alla Biblioteca Civica di Bolzano, c'erano la stessa Helena Janeczek, le due curatrici del lascito di Anita Pichler – la scrittrice Sabine Gruber e Renate Mumelter –, e la traduttrice Donatella Trevisan, che è riuscita in modo mirabile a far scivolare la “luccicante sabbia” della prosa di Pichler da un'ampolla all'altra della clessidra linguistica.

All'inizio della presentazione, Renate Mumelter ha lodato l'iniziativa “bilingue”, non tacendo però un duplice lamento: la scarsa, per non dire nulla disponibilità del mondo dell'informazione tedesca a dare rilievo a imprese di traduzione come questa, e più in generale la scarsa attenzione rivolta al tema della traduzione letteraria in una provincia che fa del plurilinguismo la propria (spesso solo retorica) bandiera. Breve anche l'intervento dell'altra curatrice, Sabine Gruber, la quale ha anticipato il tema di una ricerca che potrebbe presto fiorire: nel 1978, la Pichler ottenne una borsa di studio presso la Humboldt-Universität di Berlino Est, città in cui allacciò stretti contatti con gli ambienti culturali e in particolare con il gruppo raccolto intorno a Heiner Müller. “Si trattava di persone molto in vista – ha detto Gruber – e quindi è quasi certo che nei loro confronti, e anche nei confronti di Anita, ci sarà stato un forte interesse da parte della Stasi. Proprio di recente abbiamo avuto il permesso di consultare gli archivi della ex polizia per la sicurezza di Stato della DDR, quindi possiamo aspettarci sorprese”.

Donatella Trevisan e Helena Janeczek si sono infine dedicate maggiormente ad esaminare le caratteristiche della nuova pubblicazione. In particolare, essendo questi nove piccoli testi tutti incentrati sul tema della “percezione visiva”(“Nove variazioni sul vedere”, così il sottotitolo), è stato messo in luce come per Pichler “percepire” non significhi semplicemente riflettere in modo meccanico uno stato di cose, quanto semmai animare una complessa trama di rimandi che oscillano tra la focalizzazione individualizzante (Trevisan ha parlato di una “capacità di descrivere al millimetro ogni dettaglio”) e l'allargamento polisemico: “Percepire significa uscire da sé per poi trovare, in ciò che è ALTRO, la via del ritorno a se stessi”. Pensieri analoghi possono essere sviluppati a proposito del mezzo linguistico adottato da Pichler, ha sottolineato Janeczek: “Una delle cose che ho subito notato, leggendo i lavori di Anita, è questo suo complesso rapporto con la sua lingua, il tedesco, che per lei era già un confronto con l'altro. C'è qualcosa che qui rimanda ad uno sradicamento della sua stessa radice, è come se la sua lingua fosse una frontiera, in primo luogo tra il dialetto e la lingua standard, e come se, insomma, questo mezzo espressivo, che è sempre la casa di chi scrive, una casa che è dunque Heimat, rappresentasse al contempo anche qualcosa di inquietante, unheimlich. Mi viene in mente il verso iniziale di una poesia di Paul Celan, dalla raccolta Die Niemandsrose: ZWEIHÄUSIG, EWIGER, bist du, unbewohnbar (DOPPIACASA, ETERNO, sei tu, non abitabile)".