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Il fascino del perimetro

Paolo Rumiz presenta il nuovo libro sui monasteri benedettini, tra terre periferiche e cura per l'ambiente: “L’Europa è un’isola delle regole, figlia della disperazione”.
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Foto: Kondrat Wina Wybrane

Con Il filo infinito (Feltrinelli), Paolo Rumiz compie un nuovo viaggio attraverso i monasteri benedettini dell’Europa, toccando anche il Sudtirolo. Il libro – uscito il 21 marzo nel giorno della morte di San Benedetto, patrono d’Europa – sarà presentato mercoledì 27 marzo alle ore 18 presso l’aula magna della Libera Università di Bolzano. Dialogherà con l’autore Gabriele Di Luca.

Salto.bz: Questo libro muove letteralmente i primi passi dall’Appennino, spina dorsale e cuore spirituale dell’Italia, che diede i natali ai santi di cui i due papi “contemporanei” portano il nome: Francesco e, appunto, Benedetto. Cosa significa partire dai Monti Sibillini colpiti dal terremoto, territori di una ricostruzione difficoltosa, e perciò di spopolamento ed emigrazione?

Paolo Rumiz: È il riconoscimento di un’identità sismica del cuore dell’Italia. Identità sismica significa una capacità millenaria di ripartire da zero dopo ogni distruzione, una forza che quel mondo ha espresso sino alle soglie della modernità e che adesso ha perduto. Tant’è vero che per la prima volta dopo migliaia d’anni un terremoto produce un esodo, una fuga generale che non era mai accaduta. Il terremoto che ha prodotto uomini straordinari come i benedettini, oggi produce soltanto sconforto, dipendenza da una politica che se ne frega, l’abbandono della montagna da parte della politica italiana che non riconosce il valore delle terre periferiche soltanto perché non portano voti. Il mondo benedettino è un'ode alle terre periferiche, è una grande scommessa territoriale che si è giocata in anni tremendi: in quelli della fine dell’impero romano, nel momento dell’anarchia, della distruzione, dell’insicurezza generalizzata, e di inselvatichimento dei territori, questi uomini rifondarono un sistema in un momento pazzesco. Non so come abbiano fatto, sono talmente grandi che non riusciamo neanche ad avvicinarci a un’idea di ciò che furono. Ebbero un’energia – un’energia è la parola giusta – pazzesca.

Nei suoi viaggi ha sempre praticato lo sconfinamento, l’arte del muoversi a piedi, del camminare in un campo aperto. Ora tesse l’elogio del monastero, in cui vivono persone che scelgono di stare ferme, di non spostarsi più. Come spiega quest’apparente contraddizione?

I monasteri sono un punto d’arrivo di un infinito viaggiare. Questi monasteri creano una rete all’interno della quale c’è tutto un movimento di pellegrinaggi, di viaggi, di sconfinamenti, che fanno l’Europa. Questa storia parla di monaci straordinari, monaci “viaggiatori”, che dal monastero di San Gallo in Svizzera scendono sino a Napoli e narrano l’Italia del Centro-Sud in un modo strepitoso. Erano dei grandi osservatori: negli stessi anni di Goethe, mentre lui si faceva ospitare dai ricchi, dalla nobiltà – e aveva un’immagine molto approssimativa dell’Europa dei popoli – i monaci viaggiatori stavano davvero “tra la gente”. Avevano una capacità di osservazione e narrazione assolutamente unica. E poi c’è quel fascino che io chiamo “il fascino del perimetro” all’interno del quale valgono delle regole. La parola “regola” non vuol dire soltanto regolamento, nei termini di un’etimologia più profonda significa anche “ringhiera”, “balaustra”, una cosa che ti impedisce di cadere nel vuoto. È una meravigliosa metafora. E tu sei all’interno di questo ringhiera, dentro il monastero, guardi il mondo intorno e senti che lì dentro si sperimenta qualcosa di straordinario, che è utile al mondo intorno. Come delle riserve di diversità, di pensiero, di cultura, di dedizione al paesaggio che il resto del mondo ha dimenticato, che lì si conservano. Una banca dei semi che vengono conservati per i tempi in cui forse i semi non ci saranno più. Delle meravigliose banche dati. Così il monastero è questo, un luogo dove si conservano tesori che al momento giusto saranno tirati fuori.

A questi luoghi di riflessione possiamo associare – perché li frequentava – Alexander Langer, politico che cercò di coniugare le proprie radici cristiane ed ebraiche a un’idea di Europa fondata sul dialogo interculturale e interreligioso. Quanto i monasteri possono aiutarci a ridefinire quest’idea?

Alexander si è ucciso. Quindi era un uomo disperato per l’incapacità del mondo di leggere questi messaggi. Però la sua grandezza nasce proprio da questa disperazione. L’ideale europeo non è mai nato in momenti favorevoli, è nato quasi sempre in momenti di disperazione. Sotto il nazismo, durante la guerra di trincea del ‘14-‘18: lì è nata l’idea di Europa, figlia della disperazione, non della speranza. Quindi in questo mi ritrovo tantissimo nel Langer. Anche la mia fede europea nasce dallo sconforto per come il mondo intorno non capisce il fatto che sia inevitabile la scelta dello stare insieme. Solo degli idioti possono pensare che dividendoci possiamo reggere di più all’urto di una globalizzazione malata. L’Europa è un’isola delle regole, dove esistono dei diritti, per cui è una terra dove ancora, spero a lungo, il povero può non essere spazzato via dal ricco, il debole può vincere in giudizio contro l’arrogante. Questo è secondo me l’elemento fondante della nostra identità, quello che dovremmo imparare a narrare. Dire ad alta voce “noi apparteniamo a quest’isola delle regole”, a questo mondo che tutte le volte che ha saputo convivere ha creato cose grandiose e tutte le volte che ha alzato reticolati invece è precipitato nell’abisso. Queste sono cose che i bambini capiscono, gli adulti talvolta no.

La politica degli adulti è finita sul “banco degli imputati” per la questione del cambiamento climatico, con le manifestazioni dei Fridays for Future. Gli orti e i giardini dei monasteri sono per definizione luoghi di cura per l’ambiente, per “il creato”, e il messaggio cristiano è una riserva dell’ecologismo, come ribadito dall’enciclica di Papa Francesco.

Per me questi ragazzi che sfilano per il clima sono l’Europa, non i palazzi di vetro di Bruxelles. Perche sono ragazzi che non accettano che la colpa dei nostri disastri sia addossata agli stranieri. Essi si caricano sulle spalle la responsabilità, parola molto poco in uso nell’Italia di oggi. Io rispondo per il territorio in cui vivo, non vado a chiedere ad altri la soluzione dei miei problemi, e non vado a sostenere pericolosamente che la colpa è di qualche congiura esterna o di qualche immigrazione perversa. Quello è un pensiero che i benedettini hanno incarnato molto bene. Ogni monastero adotta un territorio, lo interpreta e lo difende, e lo rende ricco, soprattutto nelle terre periferiche. I monasteri rappresentano quasi sempre una fuga dalle città, dal rischio della secolarizzazione negativa, sono una fuga verso le campagne, verso i boschi, verso i pascoli. Una grande riabilitazione delle mani, che coltivano, zappano, mungono. Il grande monaco di Sankt Ottilien in Baviera, Notker Wolf, uomo con sei lauree e una dozzina di lingue perfettamente conosciute, uomo che suona il flauto traverso e la chitarra elettrica, autore di infiniti libri, nel momento in cui lo incontro nel suo monastero si dedica a me per alcune ore per mostrarmi le stalle, la centrale a biogas, il pollaio delle oche e delle galline, con grande umiltà definisce se stesso "un contadino". Questo proclamare la dignità del lavoro manuale, del piacere del lavoro fatto bene. I benedettini avevano capito il discorso del chilometro zero con secoli d’anticipo.

Lei visita anche due monasteri altoatesini, Muri-Gries a Bolzano e Marienberg in Alta Val Venosta. Cosa l’ha colpita del Sudtirolo benedettino?

Noi viviamo, senza saperlo, in un paesaggio benedettino. La cura maniacale, con tutti i suoi limiti, la bellezza paesaggistica dei frutteti della Val d’Adige le vigne sopra Muri-Gries, e in genere di tutta quella zona, da Tramin al lago di Caldaro: quei luoghi sono benedettini, quello è il paesaggio benedettino. La sapienza delle irrigazioni in Val Venosta, nella zona verso Laudes, questa capacità di posizionare le costruzioni in rapporto alla luce, al sole, e la gestione delle acque, i terrazzamenti, i frutteti, anche quella è cultura benedettina. La capacità di produrre buon vino, buona birra, buon formaggio, buon pane, è cultura benedettina. Non c’è francescano al mondo che sia all’altezza di un simile miracolo produttivo e di cultura. La val d’Adige è una grande metafora benedettina e ha quella luce, le pendenze, è organizzata in modo perfetto. E non parliamo della musica: ho ancora nelle orecchie l’organo maggiore di Muri-Gries suonato da Urban Stillhard, pieno di energia. Questo riconoscere che la fede e la cultura possono arrivarti anche per strumenti sensoriali, come assaggiare un buon pane o un buon vino, o ascoltare della buona musica. Urban dice che la crisi delle vocazioni, della fede, in Italia e in Europa, è parallela al rarefarsi delle bande di paese. È rimasto il vino.

Il vigneto di Muri Gries è metaforico: un’oasi, un’isola “assediata” dallo sviluppo non sempre armonico della città, che resiste agli interessi speculativi che stanno divorando anche Bolzano...

Muri-Gries è incredibile: sei in una biblioteca con il pavimento in legno, e attraverso quel pavimento ti arriva il profumo delle botti che sono nella cantina di sotto. E quando poi scendi alle botti, e in quel momento magari c’è una messa in corso con un coro, il coro risuona dentro le botti. Hai questa coesistenza, questo intreccio di segnali sonori, olfattivi, culturali che ogni tanto ti crea quasi una vertigine, anche se il luogo è oramai semideserto. Muri Gries aveva cinque-sei volte gli abitanti che ha oggi, un gran peccato. Ci sono meno vocazioni, anche se quelli che scelgono la vita monastica oggi sono molto più convinti rispetto ai monaci di una volta. Vocazioni tardive, ma più importanti.