Civati, un passo dopo Langer
«Voglio che nel PD ci siano le tradizioni più forti, più belle della nostra storia politica, che abbiamo dimenticato in questi vent'anni, come quella ambientalista dei grandi Verdi; sono affezionato ad Alexander Langer, una figura straordinaria che mi piace sempre ricordare, perché in pochi lo conoscono e forse lo dobbiamo recuperare». All'esperienza dei Verdi europei, Pippo Civati fa spesso riferimento. L'ha ricordato anche a Bolzano (e c'è scritto nel suo programma da candidato segretario), che in Europa ci vuole un'alleanza coi Verdi, ma i democratici nostrani non sembravano molto convinti. E infatti s'è visto, in Sudtirolo.
Per rispondere al post di Gianluca Trotta, la posizione di Giuseppe Civati alimenta troppo lo sconcerto della “base tradita” verso la dirigenza PD, per essere gradita ai suoi colleghi in Parlamento: ossessionato dai 101 contro Prodi, contrario alle “larghe intese” e alla TAV in Val di Susa, unico candidato alle primarie ad aver messo piede nella Taranto dell'ILVA e primo a porre la “questione maschile” («la formula ottocentesca “questione femminile” va radicalmente rovesciata: esiste nel nostro Paese una tenace “questione maschile” che produce iniquità, ingiustizie e violenze, e che ne rallenta lo sviluppo»), Civati trova il sostegno di pochi esponenti “di spicco” (Fabrizio Barca, Laura Puppato, Corradino Mineo) ma i suoi fan stanno soprattutto “fuori”: Stefano Rodotà, la femminista e langeriana Marina Terragni, il coordinatore dei Comuni virtuosi Marco Boschini, Jacopo Fo, solo per citarne i più verdi. E Vendola, dopo il confronto tv, ha riconosciuto i meriti del deputato di Monza.
A Civati mi lega, tra le altre cose, la convinzione nel «rileggere e riprendere Alexander Langer» (come ha ripetuto domenica) e tradurlo in politica, quella odierna, anziché venerarlo come un santino sull'altare del passato. Quando l'europarlamentare sudtirolese si candidò, per provocazione, a segretario “papa straniero” del PDS, agì con l'ambizione di ribaltare il tavolo consumato da logiche di vertice e riportare dentro la “forma partito” persone, idee e speranze della periferia, metaforica quanto geografica. Tale visione un po' [laica-] francescana lo accomuna a Civati, che però il fatidico passo l'ha compiuto per davvero, con una missione collettiva (“nessuno dietro, molti davanti”) inedita nel panorama italiano. E' rarissimo infatti che un esponente politico, pur determinato, faccia un passo avanti e di lato, affinché in prima fila ci stiano i volti di donne e uomini che si candidano con lui (bellissima la pagina #civoti) a sostegno di un'idea. Civati non è un candidato solo, bensì il progetto di molte/i “utopiste/i concrete/i” che vogliono scalare il PD tutte assieme verso una direzione, democratica e condivisa. Perché Civati ascolta e discute, legge (e scrive molto nel suo blog), crede nella partecipazione e libertà di espressione, insomma, è un vero democratico, in un partito che si definisce tale ma è colmo di falsi democratici, arroccati nelle “sedi” a dar seguito a vecchissimi cerimoniali: correnti, personalismi, oligarchie – alla faccia delle primarie. Di questo ha bisogno l'Italia, di cittadine e cittadini che si sentano coinvolti in un processo costruttivo (una «mobilitazione cognitiva», sostiene Fabrizio Barca), le cui preoccupazioni siano prese sul serio e non minimizzate.
L'esatto opposto di Matteo Renzi: il peccato originale del sindaco di Firenze è chiedere una delega in bianco, il “ci penso io, perché credo in voi” ereditato dal berlusconismo, mentre gli italiani stanno a guardare (in televisione). E intanto si ripercuote un vecchio male dell'Italia: gli italiani non hanno fiducia negli eletti – e gli eletti di sinistra non credono nell'intelligenza collettiva dei propri elettori. Come ha scritto Barbara Spinelli, riferendosi proprio a Civati, allo scollamento enorme tra cittadini e classe politica, e più in generale alla crisi della democrazia rappresentativa – esplosa sull'onda perfetta del moVimento 5Stelle – si deve reagire “reinventando” la democrazia europea con nuove forme, anche molto più partecipative e dirette di quelle che conosciamo oggi, senza alcun timore. Perché in Italia la sinistra ha paura, paura di dare voce alla propria opinione pubblica. «I giovani che sono bravissimi ce la fanno, ma gli altri? Con chi non ha "talento" cosa si fa, lo lasciamo per strada?»; «Basta col maschilismo del “tirare fuori le palle (di acciaio)”»; «E' un vezzo tutto italiano quello di importare modelli dall'estero (da Blair a Zapatero) anziché disegnare un modello italiano»; «La destra fa “cose popolari”, la sinistra ha il compito di rendere popolari istanze che popolari ancora non lo sono»; «Civil partnership, coppie di fatto alla tedesca: inventarsi parole per non avere il coraggio di dire matrimoni omosessuali»; «L'austerità di Berlinguer è cambiare il nostro modello di sviluppo»: sono parole pronunciate in ottobre da Pippo Civati a Bolzano, senza cinismo, senza ipocrisia. Senza paura, persino di vincere.
(Leggi anche La saggezza di Pippo.)