Kultur | Letteratura

Il mite caprone rosso

Da poco è uscito "Vita breve di norbert c. kaser" (Edizioni alpha beta Verlag). Il prologo dell'autore, come regalo di compleanno per lo scrittore, nato il 19 aprile 1947.
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Foto: Gabriele Di Luca
  • Le bestie urlavano con la disperazione delle bestie, matte di paura. I bagliori grigi e rossastri delle lingue di fuoco filtravano attraverso le commessure delle assi, attraverso le feritoie. Un crepitio sempre più vicino si diffondeva dalle imposte aperte: presagio malefico. 
    Gli occhi grandi delle mucche, quelle che non erano state mandate al pascolo, rilucevano ancora più grandi e terrorizzati. Catene strattonate – troppo corte, troppo insensibili e robuste per assecondare l’istinto di fuga. Gli zoccoli sbattevano nervosi sulla pavimentazione disseminata di strame e ormai fradicia di orina e sterco. Cadenzavano un ritmo sordo, pesante, sinistro. Esseri viventi riottosi a sottomettersi, fino all’ultimo battito del cuore, alla ferocia del destino. Nello stabbiolo i maiali si urtavano in preda all’agitazione, sbandavano come accecati nello spazio angusto dove gli umani li avevano confinati a ingrassare, dopo averli castrati. Come ogni creatura presentivano la propria sorte, come ogni creatura reagivano secondo la propria natura: i più ribellandosi, altri attendendo rassegnati, bloccati in un’immobilità vigile. 
    Indistinti si percepivano, provenienti dal cortile, gli echi convulsi, le grida attutite e accorate degli abitanti del maso Mitterkröll, gli ordini secchi dei contadini che tentavano di opporsi al dilagare dell’incendio. Disgrazia! Disgrazia! Di certo qualcuno invocava in preghiera sommessa Sankt Florian col suo secchio prodigioso: il fienile era perduto, la legnaia un rogo altissimo che neanche per la festa di Herz Jesu, appena passata, se n’era visto uno simile. Finalmente il portone della stalla venne spalancato, irruppe una luce arancione, violenta. Qualcuno liberò dai ceppi i capi di bestiame. Battendo il bastone contro i fianchi degli animali, e tirandoli per le catene a modi spicci, li costrinse a uscire fuori. La prima vacca si avviò frastornata, le altre la seguirono sul prato.
    Il timore era tutto per la casa antica. Le galline si disperdevano chiocciando instupidite. Spinta dal vento, la cortina di fumo si sollevava densa sul pendio tra Dietenheim e Luns, visibile fino al piano. A Bruneck/Brunico si era intanto sparsa la voce e la gente rivolgeva lo sguardo in alto, verso est, impensierita. La malasorte stavolta colpiva quel maso sulle pendici, tra i campi di segale. Sankt Florian si degnò di prendere corpo alle due e mezza di quel pomeriggio del 28 giugno 1978, salendo, invisibile, su un camion della Freiwillige Feuerwehr, i pompieri volontari, e risoluto a non deludere i suoi estimatori. 
    Dopo l’ennesimo corpo a corpo con le fiamme, l’esperienza dei Vigili del Fuoco, collaudata per oltre un secolo, anche in questo caso prevalse: Gott sei dank! A dirla tutta, il fido Sankt Florian si impegnò a fondo, spolmonandosi abbastanza da far girare il vento al contrario. 

  • Foto: Salto.bz
  • Mentre si svolge la scena, norbert ignora, giù a Brunico, quel che sta succedendo sul declivio. Ha una postura quasi afflosciata, davanti alla scrivania dell’autoscuola dove è impiegato. A quell’ora fa da cane da guardia al telefono, casomai squillasse, e rimane in attesa di qualcuno che forse entrerà a chiedere un paio di informazioni, spezzando così la monotonia di quel lavoro di ripiego. Intanto si distrae tra i suoi pensieri.
    Gli ingranaggi del cervello sono continuamente sollecitati. È solo, a parte le mosche entrate di straforo dalle stalle vicine, ma queste sanno già volare e non hanno bisogno di patente. Nemmeno norbert ha mai preso la patente di guida, e sa volare anche lui, anche se soltanto con la mente.
    Qualcuno picchia le nocche sulla vetrina del locale ed entra con l’aria sfrontata di chi “possiede” una notizia esclusiva che gli dà un diritto speciale di invadenza. Rimane giusto il tempo per avvertirlo dell’incendio occorso al maso sul fianco della montagna. Se ne esce con poca soddisfazione, dato che norbert è parso accogliere la novità con una disinteressata sufficienza. Non è un evento rarissimo, quello di un incendio, ma qui non si tratta di un maso qualsiasi.
    Quella giornata ventosa e ancora troppo fredda di inizio estate assume, tuttavia, dentro l’animo di norbert tinte inedite, avvampanti come quelle del fuoco: è però un fuoco gelido, disdegnoso. Rimasto di nuovo solo, pensa subito di scriverne a Rosmarie. La faccenda non è affatto insignificante. 
    Si accende una sigaretta, ma il desiderio di fumare svanisce immediatamente. La posa, senza spegnerla, sul portacenere. Tenta di buttar giù su un foglio alcune impressioni. Deve proprio far sapere le conseguenze di quell’evento alla sua amica di Berlino, Rosmarie Judisch, soppesando a uno a uno i pensieri. Più che altro abbozza qualche appunto, che ben calibrato e limato diventa corrispondenza.  

    cara Rosmarie 
    queste righe sono scritte proprio mentre il maso della mia povera nonna sta bruciando in più è la casa del mio padre naturale i cui genitori nel disordine economico del periodo tra le due guerre si sono accaparrati il bene con raggiri. così sia. ogni cosa ha un finale amaro & io quei tempi non li ho neppure vissuti. Ben di più è già andato perduto nella nostra famiglia.  

    Sospende la scrittura. Appare scosso – è però una tensione lucida, controllata – quel giovane uomo dai capelli rasati e un viso dai tratti aggraziati, non proprio magro, ma con un che di vagamente appuntito. Forse per via del naso. O del mento. È pallido di un pallore in verità poco sano, con due baffetti furbi e una barba leggera. Con l’indice e il pollice si aggiusta con un gesto brusco gli occhiali, come se dovessero focalizzare meglio anche i pensieri cupi.  Scuote la testa. Meglio riprendere più tardi. Adesso ha un’altra urgenza, soverchiante. Cerca un altro pezzo di carta. Di getto verga alcune frasi che hanno il tono di un anatema, beffardo e amaro, e che chiamare “poesia”, in questo caso, non rende al meglio la carica di disprezzo che intendono emanare. Scrive das gehoeft [il maso].  
     

    brucia casa paterna brucia 
    brucia casa di nonna 
    fuori in salvo è il bestiame 
    perfino il pollame 

    la luce acceca 
    i maiali impazziti 
    rintronando il maso 
    crolla su se stesso 
    va’ in cenere 
    vento del nord 
    disperdilo  

    brucia casa paterna brucia 
    brucia casa di nonna 
    fuori in salvo è il bestiame 
    & anche il pollame  


    Distruggere, bruciare, incenerire, disperdere nel vento. Non è un tipo violento, norbert, quasi mai. Può esserlo soltanto con la pistola, sempre carica, delle parole. E in questi versi esagera apposta. La pallottola che esplode è un risentimento antico. 
    Tutto ciò che si muove sulla Terra – anche un modesto, impercettibile cambiamento – provoca conseguenze che spesso dirottano il destino di generazioni: magari avrebbe potuto incanalarsi diversamente anche la sua vita, se il maso, in un tempo a lui lontano, avesse seguito una sorte diversa.
    Non si muove dall’ufficio, non accorre fisicamente sul luogo dell’incendio: immagina, ardentemente, e si augura che l’intera struttura imploda su se stessa. Perché tanto livore? Nel suo animo di comunista convinto c’è sempre traccia di compassione, che adesso però riserva, ostentatamente, solo alle povere bestie. Agli umani no. 
    Tiene accanto al tavolo la solita bottiglia di vino: sente che deve bere. Una specie di brindisi senza festa. Beve con poco gusto. 

  • Foto: Stadtbibliothek Bruneck
  • Questa è una storia carica di contraddizioni, quasi sconosciuta in un’Italia capricciosa di fine anni settanta che conserva il bottino di guerra delle terre sudtirolesi, ma trascura un po’ troppo i figli adottivi, quando non parlano la lingua “sciacquata” nell’Arno. 
    L’avevo incontrato senza mai cercarlo, norbert conrad kaser. Succede, nelle infinite congiunzioni astrali che si rivelano necessarie. Mi era accaduto, vedi caso, per una circostanza letteraria. Sono persuaso che la carrozza del destino non proceda alla cieca: tu pensi di allontanarti senza una meta, ma – gira gira – anche per strade traverse lei ti riconduce a un appuntamento fatale.
    Stavo leggendo con gran piacere un libro di Fabio Levi dal titolo In viaggio con Alex e mi ero imbattuto in un aneddoto singolare. Alexander Langer stesso, riporta l’autore, rammentava che in un giorno da lupi, d’inverno, norbert conrad kaser aveva atteso a lungo un passaggio in autostop. Perennemente a corto di danaro, in quel periodo l’autostop era il suo mezzo privilegiato per muoversi. Finalmente si era fermata una grossa Mercedes e l’aveva fatto salire, intirizzito. Dopo qualche chilometro, in confidenza, il conducente gli aveva confessato che normalmente non caricava mai gli autostoppisti. Con una certa aria da furbetto gli aveva rivelato il motivo del diverso comportamento. Non si trattava proprio di solidarietà: quel giorno, sbadatamente, non si era premurato di caricare, come faceva di solito, dei sacchi di sabbia nel bagagliaio, per dar più stabilità alla vettura: «Con la strada ghiacciata è sempre meglio». A quel punto il passeggero, ancora infreddolito, aveva preteso di scendere subito: «Non mi va di farle da sacco di sabbia».  
    Era stata una reazione quasi automatica, permalosa, tipica del suo carattere che coglieva anche le sfumature e non perdonava gli insulti alla propria dignità. Così, dopo quel racconto curioso, ero voluto andare a fondo, per capire chi fosse davvero quell’individuo sconosciuto, coerente fino all’autolesionismo, che Langer indicava essere un poeta.
    Ai fini di questa storia, che ha per protagonista norbert conrad kaser – le cui iniziali vanno scritte di preferenza in carattere minuscolo, per suo esplicito gradimento –, è il caso di fare un tuffo all’indietro, fino all’anno 1947.  

  • Foto: Foto: HaymonVerlag
  • Il maso Mitterkröll, circondato da boschi di conifere e appollaiato su un prato inclinato (come si usa spesso e per necessità in Pusteria), era stato per trecento anni proprietà degli avi della nonna, per parte di madre, Maria Thum, nata Oberwanger. Nei primi anni di quel secolo bastardo che è stato il Novecento, e per fare il meticoloso dirò esattamente nel 1909, quando nonna Maria aveva già ventisette anni, la famiglia era stata costretta a svenderlo per i debiti contratti in quegli anni magri, e divenuti insostenibili. Fu un dolore e un disonore, nella ristretta cerchia paesana.
    A dire di nonna Maria, il trasferimento della proprietà non era avvenuto in modo corretto, tra gente perbene; si erano aggiunte le insopportabili furberie dello scaltro acquirente, tale Mairunteregger, ai danni del venditore ormai preso per il collo. E come accadeva a quei tempi, con la dissoluzione del patrimonio anche la reputazione familiare era stata compromessa.
    Date le evidenze che verranno, la cosa non era mai stata digerita. Tanta acqua era passata tra gli argini della Rienza, il torrente che attraversa Brunico, e la vita aveva ripreso a girare, ma nonna Maria Thum aveva mantenuto il chiodo in testa anche dopo essersi sposata e aver messo al mondo un certo numero di figli e figlie, di cui l’ultima specialmente, Paula, era riuscita proprio una creatura come si deve.
    Paula si era fatta donna, impreziosita da una tenue bellezza e pure da una marcata simpatia. Tanto da non passare inosservata. Purtroppo, per restare in tema d’incendi improvvisi, stavolta del cuore, s’era lasciata un po’ troppo andare con un tizio e, scherzando appunto col fuoco, era rimasta scottata. A dirla chiaramente: incinta. Avrebbe dovuto starci attenta, Paula, a trentaquattro anni non era certo una ragazzina, ma cosa vuoi… Ora non restava che pregare la Heilige Anna, la santa delle donne gravide.
    In un paese come Brunico, dove le anime si contavano in poco più di tremilacinquecento, questo “incidente” doveva apparire oltremodo vergognoso. Il prete raccomandava dal pulpito la venerazione assoluta della Vergine e benediva, a cascata, le sue sperabilmente timide emule. Era chiaro a tutto il popolo di Dio, senza fraintendimenti, quale fosse la virtù più elogiata e al contempo più disattesa della storia umana: la castità. Di certo il sesso – beninteso, finalizzato alla conservazione della specie umana, per quel che vale – era ammissibile solo dopo il sacro sì coniugale. Quello abusivo però – succede da che mondo è mondo – si praticava lo stesso: nei prati in fiore e tra i tralci delle vigne, sui fienili odorosi e nelle rimesse, ovunque. Come si dice: allora non c’era la televisione, ma anche dopo, forse per colpa dei programmi di scarsa qualità o più probabilmente per l’inesauribile richiamo di madre natura, i ragazzi finivano volentieri per conoscersi in senso “biblico”.

  • Il mite caprone rosso: La prima, monumentale biografia in lingua italiana di norbert c. kaser, uno dei maggiori scrittori sudtirolesi del Novecento, nonché coscienza critica della propria “amatodiata” terra. Foto: TravenBooks

    In genere tutto finiva senza altre conseguenze che qualche rampogna in confessione, ma la censura morale si abbatteva, con vigore e pubblica riprovazione, quando le ragazze – loro sporcaccione, mentre i maschi furbi – restavano ingravidate, esibendo inequivocabilmente la propria esclusiva, atavica colpa: essere le privilegiate procacciatrici di anime per il Demonio. Invero, fatto il danno, anche nel caso di Paula ci sarebbe stata una scappatoia. Onorevole, anch’essa largamente praticata, per buona coscienza: il responsabile dell’irruente inseminazione, in questo caso il giovane Alois, ipoteticamente innamorato, avrebbe dovuto ottenere il consenso dei Thum a sposare Paula. Per vivere, secondo tradizione e come nelle favole, tutti felici e contenti, per quanto concesso dalla dura vita nei masi. Ma Alois, tutto sommato un Mandl, un figliolo passabile che di mestiere andava instradandosi a fare il commerciante di bestiame e il macellaio – dunque, ragionevolmente, un buon partito –, aveva una tara nel corredo ereditario: di cognome faceva Mairunteregger.
    In paese si raccontava che non fossero stati affatto i genitori di Alois a ostacolare con veemenza le nozze riparatrici: determinante fu proprio Maria Thum, madre di Paula. Aveva escluso sul nascere anche la sola ipotesi di un simile matrimonio, che le risultava inac cettabile. Non voleva avere niente da spartire, nemmeno una figlia gravida, con una famiglia che le aveva soffiato il maso natio e con quest’ultima sciagura la disonorava doppiamente.
    Paula, per via della colpa, non aveva alcuna voce in capitolo. Nel paesaggio natalizio del 1946, e dietro il vetro appannato del finestrino di un treno, lasciò Brunico e partì insieme alla madre alla volta di Brixen/Bressanone. Fu un viaggio in rapida emergenza, prima che il ventre rivelasse l’inverecondo segreto. La neve aveva appena coperto l’ultimo sangue dei soldati.
    Da “sventurata”, Paula fu accolta dalle suore di Santa Elisabetta. Le cosiddette “sorelle grigie” avevano fatto l’abitudine, durante il conflitto, a trattare casi del genere. Curavano le ferite fisiche e di riflesso – anche se la priorità istituzionale avrebbe preteso il contrario – quelle dell’anima. Non erano trascorsi poi molti anni da quando era stato inaugurato il piccolo ospedale. La costruzione tra le betulle avrebbe potuto assomigliare a una serena casa vacanze, con i muri bianchi e il tetto molto spiovente, con i poggioli essenziali e le balaustre in legno che cedevano la scena a un richiamo le zioso: la decorazione, così cara all’architettura tedesca, delle travi a graticcio.
    Per un puntiglio di Maria Thum, si dice in paese, già quattro mesi prima del parto Paula era stata internata dalle suore con la patente non proprio commendevole di futura ragazza madre. L’angelo custode di norbert – allora novellino, ma da non considerare di prima scelta neppure in seguito – era scandalizzato quanto impotente di fronte al fatto che si impedisse all’incolpevole nascituro la disponibilità rassicurante di un padre regolamentare.
    In paese si racconta poi che Alois, da solerte macellaio, di tanto in tanto capitasse furtivamente a Bressanone con un generoso carico di viveri e carne – per emendare un poco i peccati della propria stessa carne – e che le suore, più che Paula, si affrettassero a spazzolare il bendidio.
    Il piccolo venne al mondo con un vagito di protesta, così toccante da scuotere le foglie della foresta intorno, anche se il reclamo, come quello di tutti i bebè, non assomigliava né al tedesco né all’italiano. Era una serata di aprile, per l’esattezza il giorno 19, del 1947.
    Non ci fu una vera festa, bastarono i sorrisi di circostanza delle sorelle grigie e l’orgoglio, vero e istintivo, intimo e conquistato col dolore, della puerpera. Paula pregò la giovane vicina di stanza, Juliane, associata nella medesima imbarazzante sorte, di far da madrina all’immediato e sbrigativo battesimo. 

  • Prossime presentazioni del libro:

    17 maggio, ore 19, ROVERETO, LIBRERIA ARCADIA
    28 maggio, ore 18.30, BRUNICO, BIBLIOTECA CIVICA
    29 maggio, ore 18.00, BOLZANO, CENTRO TREVI