Marco Cavallo vs. "manicomi criminali"
“È un viaggio per restituire la dignità agli internati degli OPG, siamo fieri di aver partecipato a questa rivoluzione”.
Ha commentato così, a fine proiezione, il regista Giuseppe Tedeschi l'esperienza del film “Il viaggio di Marco Cavallo” presentato davanti alla sala gremita del Centro per la Cultura di Merano, mercoledì scorso, 26 novembre. La pellicola, co-diretta insieme a Erika Rossi, ha il pregio di documentare il percorso dell’esemplare equino di cartapesta, simbolo della protesta contro gli Ospedali psichiatrici giudiziari - 6 in tutto – attraverso l’Italia, senza scivolare in una melassa di retorica predicatoria e senza cedere alla facile tentazione di indugiare insistentemente con l’occhio della macchina da presa sugli internati. Per dirla con Aldo Mazza, editore altoatesino e organizzatore dell’iniziativa StopOPG insieme allo “psichiatra riluttante” - come è stato definito - Peppe Dell’Acqua, “il film ha una sua leggerezza che però non impedisce la giusta resa delle atmosfere”.
Il documentario va a inserirsi accanto ad altri tentativi convincenti (“Lo Stato della Follia” di Francesco Cordio e “Code di Lucertola” di Valentina Giovanardi) di raccontare il dramma degli OPG, su cui è opportuno soffermarsi.
Gli Ospedali psichiatrici giudiziari seguono pedissequamente la convinzione, egregiamente approfondita da Foucault, che il sistema punitivo sia l’unica arma di controllo sociale possibile di cui le istituzioni si servono per opprimere le individualità e ripristinare lo status quo. Basandosi sull’assunto che un individuo probabilmente commetterà un crimine contro di sé o contro gli altri, e che quello stesso individuo non riconosce l’intenzionalità dell’azione da lui compiuta, l’istituzione carceraria riempie dunque una delle lacune ereditate dalla legge 180 – la cosiddetta Legge Basaglia – lasciando persistere questi sistemi manicomiali. Gli OPG diventano così dei non-luoghi, fatiscenti strutture dove la repressione, i metodi coercitivi - elettroshock, (ab)uso di psicofarmaci, sistemi di contenimento, celle di isolamento, solo per fare alcuni esempi - e l’esclusione sociale sono la sola risposta dello Stato alla sofferenza umana.
Rimandare costantemente la chiusura di queste strutture significa rifiutare di intervenire su questo specifico modello repressivo oltre ad evidenziare l'incapacità di trovare dei metodi alternativi di “cura”. Si può avere un’idea della questione anche solo analizzando il termine ”OPG” che rivela la contraddizione di non essere né un vero ospedale né un vero carcere. Dal momento che il “matto criminale” è per lo Stato un individuo improduttivo, il soggetto rinchiuso nell’OPG inizia a vivere - ed è destinato a viverla a lungo - l’emarginazione, declinata in uno stigma violento, che si ripercuote su ogni tentativo di riabilitazione sociale oltre che sulla percezione sociale del soggetto stesso. L’istituzione che delega ad un sistema repressivo la capacità di agire sulla libertà e sulla vita di ogni individuo, fa diventare il manicomio stesso una fabbrica di non-vite.
Il rinnovamento e il superamento che lo Stato sta tentando di perseguire si traduce, di fatto, nella creazione di nuovi OPG, denominati REMS (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria). La novità riguarderà la riduzione dei posti letto che permetterà di svuotare le vecchie strutture e, ancor di più, il dislocamento del programma che da statale diventerà regionale con la conseguente responsabilizzazione da parte di ogni singola regione in materia di finanziamenti, controllo ed esecuzione della legge.
Il risultato: non si troverà una struttura adeguata dove “collocare” questi “detenuti”, soggetti scomodi e socialmente definiti come pericolosi, a meno che non tornino ad affollare - e quindi sovraffollare - i (nuovi) REMS, che non saranno in grado di contenere tale ondata e che asseconderanno alcune prevedibili criticità (già sperimentate negli OPG) come quelle che riguardano la precarietà igienica e la gestione della “cura” oltre che il disagio di sradicare l’individuo dal suo luogo di provenienza.
Proliferano così strategie che de-umanizzano il soggetto e non considerano i benefici oggettivi che una prevenzione, dei servizi adeguati sul territorio, e il miglioramento - oltre che il finanziamento - di programmi terapeutici potrebbero avere su centinaia di vite umane.