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Politica | Avvenne domani

Quel referendum bloccato

La seconda autonomia nacque anche perché fu impedito il ricorso al pronunciamento popolare.

Nei primi mesi del 1972 il Parlamento italiano era impegnato nell'approvazione, in seconda lettura, della legge costituzionale riguardante il nuovo statuto di autonomia per la regione Trentino Alto Adige. Man mano che il momento della votazione finale si avvicinava, diventava sempre più pressante l'esigenza di assicurare alla legge il massimo consenso possibile. L'articolo 138 della Costituzione prevede, tra l'altro, che le leggi di rango costituzionale possono essere sottoposte normalmente a un referendum confermativo quando lo richiedano cinquecentomila elettori, cinque consigli regionali o un quinto dei membri di una Camera. Questo tipo di referendum, che è, sia detto per inciso, proprio quello su cui gli italiani saranno chiamati ad esprimersi a dicembre in merito alla riforma costituzionale varata dal governo Renzi, può essere però evitato quando la legge costituzionale sia stata approvata da ciascuna delle due camere con una maggioranza qualificata: quella dei due terzi dei componenti.

Questo era esattamente lo scopo che, in quei primi mesi del 1972, si proponevano di raggiungere gli esponenti della maggioranza che avevano portato in Parlamento il nuovo Statuto di autonomia. La necessità di evitare il ricorso al voto popolare è presto spiegata. Nel suo percorso tra  Camera e Senato la legge sul nuovo Statuto di autonomia aveva potuto contare su una maggioranza abbastanza solida, formata da quattro partiti che reggevano all'epoca il governo di centro-sinistra guidato da Emilio Colombo: democristiani, socialisti, repubblicani e liberali. Il più forte partito di opposizione, quello comunista, aveva manifestato alcune perplessità di fondo sul nuovo impianto statutario decidendo, nelle prime fasi dell'iter costituzionale, di astenersi. La battaglia senza risparmio contro il nuovo assetto dell'autonomia altoatesina era stata sostenuta quindi solo dalla destra incarnata dal Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante che aveva utilizzato ogni mezzo ammesso dal regolamento per bloccare la legge. L'ostruzionismo del segretario missino, con discorsi durati sino a nove ore consecutive e senza interruzione, non era servito però ad impedire che il disegno di legge seguisse il suo corso tra i due rami del Parlamento. Era più che certo, però, che il Movimento Sociale avrebbe tentato, probabilmente con successo, di raccogliere le 500.000 firme necessarie per portare alle urne, sull'argomento, tutti gli italiani.

Erano davvero in pochi, in quei giorni a Roma o a Bolzano, gli esponenti politici della maggioranza che non temessero grandemente il verificarsi di una simile evenienza. La maggioranza politica che aveva garantito il via libera, in Parlamento, al nuovo Statuto rischiava di sbriciolarsi una volta messa alla prova del giudizio popolare.

Alla definizione del nuovo Statuto si era arrivati, come noto, dopo gli aspri contrasti maturati, a partire dalla metà degli anni 50, con la crisi della prima autonomia regionale. C'erano voluti dieci anni di logoranti trattative tra Bolzano, Roma e Vienna, con il sottofondo incessante degli attentati terroristici, per arrivare ad un compromesso accettabile per tutti ma che in realtà non aveva pienamente soddisfatto nessuno. Una nuova autonomia scritta in quel momento solo sulla carta, ma tutta da attuare concretamente, nei confronti della quale vi erano forse nel mondo politico più riserve che speranze.

Questo era il "Pacchetto", tanto per usare un termine nato in quegli anni e che è rimasto nella storia, che l'Italia metteva sul tavolo per risolvere un gravissimo contrasto interno e un altrettanto complessa controversia internazionale. Era un'ipotesi di soluzione che le capacità di persuasione politica di personaggi come Aldo Moro e Giulio Andreotti potevano imporre, grazie anche alla disciplina di partito, ai  deputati e senatori di una maggioranza non sempre granitica, ma quale sarebbe stata la reazione dei cittadini chiamati ad esprimersi con un referendum?

C'era poco da stare allegri. Per un decennio almeno la questione altoatesina era rimbalzata sulle pagine della stampa italiana quasi solamente in occasione dei ricorrenti atti di violenza terroristica. Della complessa trama di trattative che aveva portato all'intesa sulla nascita di un nuovo Statuto, poco si sapeva, anche perché si era lavorato quasi sempre nella massima segretezza. Le voci che si alzavano più alte, sulle piazze, erano invece quelle della destra, che manipolava in modo spregiudicato i latenti pregiudizi antitedeschi da sempre presenti nell'inconscio collettivo delle genti italiane e che vaticinava fosche previsioni riguardo ad un Alto Adige completamente tedeschizzato, con gli italiani del posto destinati a fare la stessa fine dei dalmato-giuliani,  cacciati di furia dalla Jugoslavia di Tito.

Un afflato emotivo che aveva ottime probabilità, in quei giorni, di conquistare, nell'opinione pubblica nazionale, un livello di consensi tale da provocare la bocciatura referendaria della legge costituzionale sul nuovo Statuto di autonomia del Trentino Alto Adige.

Questo nelle vaste aree del paese che, della questione altoatesina, poco o nulla sapevano, ma non è che il risultato promettesse di essere molto diverso laddove invece il problema era vissuto da coloro che ne erano in qualche modo i protagonisti. Quasi scontato, in Alto Adige, il voto contrario del gruppo italiano, ancora raccolto in prevalenza attorno ai partiti di maggioranza, ma spaventato da un imminente passaggio delle leve del potere in mano ai politici sudtirolesi. Per quel che riguarda il mondo tedesco basti poi ricordare che, nello storico congresso SVP del 1969 a Merano, il "Pacchetto" aveva ottenuto un consenso assai risicato. Il concetto di un'autonomia intesa come rinuncia ad esercitare il diritto all'autodecisione per il ritorno con l'Austria era quindi ben presente e vivo in larghi strati della società sudtirolese (lo è d'altronde ancor oggi) e di fronte alla necessità di esprimersi i risultati avrebbero potuto essere sorprendenti.

Nemmeno nel Trentino, pure beneficiato da un'autonomia provinciale ampia come quella del vicino Alto Adige, ma senza tutti i problemi dovuti alle difficoltà di rapporto tra i vari gruppi etnici, il consenso al nuovo Statuto era garantito. Giocavano il loro ruolo, in questo caso,  l'ancor recente delusione per il fallimento della prima autonomia regionale che aveva riconosciuto a Trento un'indiscutibile leadership e il timore che la disarticolazione rispetto all'autonomia altoatesina internazionalmente garantita mettesse in pericolo, prima o poi, il pur rilevante risultato raggiunto.

Così, in quei giorni a cavallo tra la fine del 1971 e l'inizio del 1972, mentre il mondo politico italiano viveva i contrasti e le divisioni profonde messi in luce dall'esito delle votazioni per il nuovo presidente della Repubblica, con il democristiano Giovanni Leone eletto alla fine anche grazie all'apporto dei voti missini, ci si domandava come evitare che il popolo potesse pronunciarsi sulla questione altoatesina. Alla fine la soluzione fu trovata con un'intesa politica che anticipò, di quasi un decennio, quegli "equilibri più avanzati" che avrebbero portato i comunisti a fare il loro ingresso, sia pur senza assumere direttamente incarichi di governo, nell'area della maggioranza. In seconda lettura la legge costituzionale riguardante il nuovo Statuto fu votata dunque anche dal PCI e questo bastò per superare la soglia prevista dalla Costituzione, ed evitare così la possibilità di un referendum.

Non è difficile immaginare che cosa sarebbe avvenuto se il voto referendario avesse fatto naufragare la politica del compromesso concordato tra Moro e Magnago e dell'intesa diplomatica tra Roma e Vienna. La rottura avrebbe ridato fiato a quelle forze, ne parlavamo proprio una settimana fa in questa rubrica, che avevano scommesso su un'ipotesi di uno scontro politico e militare che avrebbe trasformato l'Alto Adige e in una replica dell'Irlanda del Nord o dei Paesi Baschi. Ogni ulteriore sforzo d'intesa sarebbe stato difficilissimo se non impossibile.

Quasi mezzo secolo fa, dunque, la nuova autonomia dell'Alto Adige nasce anche dalla negazione di quello che oggi è diventato una sorta di mantra politico: il ricorso alla volontà popolare, visto, specialmente negli ultimi tempi, come lo strumento fondamentale per aggirare e delegittimare il sistema rappresentativo, irrimediabilmente inquinato dalla degenerazione dei partiti politici. Negli ultimi tempi alcuni esempi di "democrazia diretta", dall'esito più che discutibile di alcune consultazioni svoltesi in terra elvetica sui diritti degli immigrati allo stesso referendum inglese sulla "Brexit" hanno posto però alcuni pesanti interrogativi sulla possibilità che il giudizio popolare venga a decidere, nel modo migliore il più corretto, questioni complesse, articolate, frutto magari di lunghe trattative e di compromessi che lasciano sempre qualche problema irrisolto e qualche aspirazione insoddisfatta. Lo stesso sistema referendario tende alla massima semplificazione, con l'esaltazione degli aspetti più estremi di un problema. Più che alla testa, come del resto sta avvenendo in queste settimane in Italia, ci si rivolge alla pancia di un'opinione pubblica portata più a votare "contro" che "per" qualcosa.

È la democrazia 2.0, si usa dire e chiunque alzi anche sommessamente una voce critica in proposito viene rapidamente lapidato come seguace della vecchia e corrotta partitocrazia di quel "Sistema" alla cui definitiva sconfitta si è brindato anche in questi giorni dopo il sorprendente esito delle elezioni negli USA.

Il ritornare con la memoria alla nascita dell'autonomia altoatesina dovrebbe però indurre a qualche considerazione meno  partigiana e a guardare anche al mito del "popolo che decide" con un filo di maggiore prudenza.