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L’apneista, il doganiere e la natura

Due romanzi freschi di stampa e il loro contributo alla letteratura contemporanea: una riflessione d’autore. Di Stefano Zangrando
Angeli
Foto: Foto Einaudi

Che siano gli ultimi lavori pubblicati da un’autrice e un autore provenienti dal Trentino-Alto Adige è poco importante. Piuttosto, entrambi invitano a interrogarsi su cosa si possa o si tenti di fare oggi con la forma-romanzo, o con qualcosa che in qualche modo presuma di richiamarsi ad essa al di là delle etichette editoriali.

Il primo è Dimentica di respirare di Kareen De Martin Pinter, uscito per Tunué nella collana diretta da Vanni Santoni. Parla di un apneista, un uomo che fin da piccolo ha appreso a sospendere il respiro il più a lungo possibile. Raggiunta la mezza età, e con essa il tempo dei ricordi che concorrono a un bilancio esistenziale, Giuliano non ha smesso di praticare l’apnea come agonismo, come continuo oltrepassare un limite sportivo e individuale, non lontano peraltro da un atto meditativo. Ma da un certo punto in poi le sue immersioni assumono un tratto visionario, dove al seguito del ricordo si annuncia il rimosso. Andare verso il fondo, o al fondo di se stessi: un simbolismo che potrebbe apparire prevedibile, non fosse per degli apporti narrativi che estendono questa visionarietà a un campo ulteriore, che spazia fino alle “ama”, le pescatrici giapponesi che, più ancora dell’allenatore che con il suo precetto dà il titolo al libro, hanno insegnato a Giuliano la naturalezza dell’immergersi. Compare anche una delfina, che estende a sua volta l’ambiente del racconto alla vita animale, a un bios intelligente e tuttavia dialettico rispetto allo spazio umano entro il quale si muove Giuliano fuori dal mare. Non è immediato, da lettori abituati ad ambientazioni antropiche, entrare nel biotopo d’elezione del protagonista e nel linguaggio che lo veicola. Ma pian piano tutto va chiarendosi e avvolgendoci, proprio come acqua – con picchi di tensione notevoli, come a ridosso dell’immersione che procura a Giuliano un nuovo record –, mentre per il personaggio tutto pare lentamente oscurarsi, farsi criptico, i piani temporali si confondono, le immagini si sciolgono l’una nell’altra. Il fatto è che la passione di Giuliano per l’apnea ha un’origine traumatica, più o meno segreta. Sicché a un certo punto, quando una diagnosi fatale lo pone di fronte all’imminenza della fine, quello scavo in se stesso si radicalizza, lo induce a guardare in faccia l’origine di tutto – prima di compiere una scelta, quella del suicidio assistito, che solo in extremis e secondariamente apre il romanzo a una questione, per così dire, “di scottante attualità”. Con ciò Kareen De Martin Pinter dimostra, come già aveva fatto nel suo romanzo d’esordio L’animo leggero, che a interessarle davvero, più che contribuire con le sue narrazioni a un qualche dibattito, è dare forma a un mondo nel quale possa declinarsi una sua particolare inclinazione, sottilmente impietosa e timorata ad un tempo, per le situazioni limite.

Il secondo è Cosa diremo agli angeli di Franco Stelzer, uscito da Einaudi, collana L’Arcipelago. Il protagonista e narratore è uno che controlla i passaporti in un piccolo aeroporto di provincia. È un uomo con un’immaginazione fervida, che ama osservare i viaggiatori, brevemente, giusto il tempo di passarli al vaglio, e fantasticare sulle loro vite. Si sofferma su una in particolare, quella di un tizio cordiale che il narratore suppone essere un imprenditore, pendolare tra l’azienda all’estero e la famiglia in patria. La narrazione di Stelzer procede per brevi capitoli e alterna diversi segmenti narrativi: la quotidianità del narratore, anche in casa, alle prese con la costruzione di una dimora per potenziali ospiti, con il ricordo sempre solo accennato di una vita coniugale troncata o con la lettura perplessa di fumetti pornografici d’annata; la storia che egli cuce addosso del tutto arbitrariamente al viaggiatore e che va conquistando sempre più spazio, sempre più vivida benché solo ipotizzata; e i commenti lirico-riflessivi che rispondono al titolo del libro. Sono questi, a tutta prima, i brani più toccanti e folgoranti, di una filosofia dimessa ma acuta, che abbordano le questioni ultime dell’esistenza; in realtà la poesia di cui Stelzer è capace, e di cui aveva dato prova in modo particolarmente stupefacente in Matematici nel sole, è soprattutto nel racconto delle piccole cose, della grandezza celata nei dettagli e nei gesti minimi, nelle inezie di tutti i giorni. Non è una poesia dell’insignificanza, ma un’attitudine all’incanto che muove da uno sguardo amorevole e comprensivo sul mondo, sugli uomini e, in questo romanzo, anche sull’inventare storie. È uno sguardo però anche in grado di aprirsi alla dimensione più triviale della prosa del mondo, e alla sua ironia – senza per questo mai rinunciare a una compassione dolcemente malinconica, umile e sapiente. Il fatto è che tutto ciò, la realtà come la fantasticazione, la riflessione come lo slancio lirico, dall’inizio e sempre più verso la fine è velato dalla morte, dal suo pensiero come dalla sua naturale datità, sicché a libro chiuso si ha la sensazione di aver attraversato tutto pur non avendo visto quasi niente: non solo perché le vite narrate da Stelzer sono le più comuni, in termini borghesi, che si possano immaginare, ma perché Stelzer riduce al minimo la tensione narrativa, volta le spalle alle lusinghe del plot: predilige il ritmo blando di un’esistenza senza grandi sorprese.

Ora, forse la domanda è sproporzionata, ma non posso fare a meno di pormela: cosa aggiungono due libri come questi all’estetica del romanzo contemporaneo? Non lo so. Forse non molto, ma di certo non cadono neanche nella mota indistinta delle narrazioni convenzionali, consolatorie, irrilevanti. Sono romanzi brevi, rispettivamente 113 e 131 pagine, lunghi tuttavia quanto basta per aprirsi a qualità e soluzioni, sia formali che tematiche, che il genere racconto avrebbe potuto accogliere a stento. Di certo fanno entrambi una cosa: non si concedono se non in minima parte a quella che più sopra ho chiamato l’attualità, e alle sue questioni più “scottanti”. E questo di per sé è per me già un punto a favore, in un’epoca dove non occuparsi di certi temi, o anche solo non esibire un risvolto manifestamente politico del proprio operato letterario o artistico, è ragione sufficiente di emarginazione dal dibattito pubblico. E poi c’è il mondo animale e naturale: se nel romanzo di De Martin Pinter la predominanza dell’elemento equoreo è già di per sé in qualche misura deviante rispetto alla norma umana e terrestre, nel libro di Stelzer l’interesse ludico-etologico del personaggio immaginato dal protagonista apre squarci analogici che ridimensionano ciò che resta (ed è parecchio) del nostro antropocentrismo, ma senza per questo rinunciare alla specifica dignità dell’esistenza umana. Ecco ciò che forse accomuna questi due libri: accogliere la natura senza asservire il romanzo al paradigma biologico, anzi preservando uno sguardo culturale, significante, anche di fronte alla cruda indifferenza degli elementi, dell’energia brada del bios. E questo per me è un altro punto a favore, in un’epoca di sottomissione pressoché cieca alla verità scientifica o, viceversa, ai simbolismi grezzi e primitivi del fondamentalismo religioso: entrambe varianti di un’inclinazione dogmatica che in effetti, a quel che so, l’arte romanzesca ha sempre saputo criticare meglio di altre.

Infine, per tornare brevemente all’insignificanza: Stelzer è nato e vive a Trento, De Martin Pinter è nata a Bolzano e vive a Strasburgo, lui ha poco più di sessant’anni, lei poco più di quaranta, e i loro due libri sono usciti entrambi da poco, in maggio.