Society | L'intervista

“Bisogna insegnare a chiedere aiuto”

La pedofilia è un argomento che spaventa genitori e insegnanti. Ne abbiamo parlato con Francesca Ferragina, pedagogista e mediatrice familiare del Centro “Il Germoglio”. "Bisogna iniziare presto con la prevenzione, ecco come".
Giornata contro la pedofilia
Foto: Minori.it
  • SALTO: All’interno del Germoglio vi occupate anche di pedofilia?

    Francesca Ferragina: Sì, e più in generale di violenza sessuale sui minori. I nostri progetti di prevenzione partono dai bambini dell’ultimo anno della scuola dell’infanzia per parlare sia della violenza sessuale che in generale di tutte le forme di violenza. Per quanto riguarda la violenza sessuale, i bambini così piccoli vengono adescati da persone fisiche nella vita reale, mentre più ci si avvicina all’adolescenza, più il mezzo di adescamento maggiormente utilizzato è il web. Quello che facciamo nello specifico con questi bambini, è insegnare loro a dire “no”. Insegniamo loro ad allontanarsi dalle persone potenzialmente pericolose e ad allertare immediatamente un adulto di riferimento. A questo proposito, non diciamo mai di dirlo alla mamma o al papà, perché purtroppo i dati ci dicono che la violenza avviene spesso nell’ambiente familiare. Proprio per tale motivo, i progetti di prevenzione si sono evoluti negli anni per essere sempre più efficaci e coerenti con la realtà della violenza. A queste bambine e bambini diciamo che devono avere un adulto di riferimento per ogni dito della mano, così da poter avere anche dei riferimenti esterni alla famiglia, nel caso in cui fosse proprio la famiglia a commettere una violenza. 

    Quali possono essere questi adulti di riferimento?

    Gli adulti di riferimento al di fuori della cerchia famigliare possono essere gli insegnanti o anche l’allenatore. Poi, se la violenza invece avviene proprio all’interno dell’allenamento sportivo, ad esempio, in quel caso gli adulti di riferimento tornano logicamente ad essere i genitori. 

  • Francesca Ferragina: L'esperta invita ad iniziare presto con la prevenzione Foto: F.F.

    Dopo aver subito una violenza solitamente ci si vergogna e non se ne parla. A questo proposito cosa si può fare?

    Si può sottolineare la differenza tra “segreti buoni” e “segreti cattivi”. Assieme ai bambini capiamo come i segreti cattivi facciano stare male, perché nei casi di violenza chi la subisce non ha nessuna colpa e quindi non c’è bisogno di proteggere nessuno coi segreti. Insegniamo loro che non si devono vergognare, perché è chi commette la violenza che deve vergognarsi. Nei vari interventi di prevenzione, vediamo che a volte ci sono dei bambini che già la stanno subendo una qualche forma di violenza, quindi gli interventi hanno due obiettivi: individuare chi già è vittima di abusi e/o maltrattamenti, e salvaguardare gli altri per il futuro. Quando poi ci troviamo di fronte a bambine e bambini che hanno già subito una violenza, in quel caso abbiamo un’equipe clinica che fa una parte consulenziale con la bambina o il bambino che hanno subito abusi e con i genitori, così da accompagnarli nel difficile percorso di comprensione dell’accaduto e della successiva denuncia da sporgere. 

    Questo ambito lavorativo è emotivamente complesso e delicato.

    Assolutamente sì. Ha un impatto emotivo molto forte e bisogna riuscire a mantenere una sorta di distacco, cosa che ovviamente non è sempre possibile. Proprio per questo motivo il nostro centro ha un supporto di esperti che ci danno una mano sia per quanto riguarda l’elaborazione personale di certe esperienze lavorative, sia per ciò che concerne la supervisione della metodologia che stiamo adottando. 

    Quando si fa prevenzione dalla terza media in poi, è già un po’ tardi e forse a quel punto non si può chiamare neanche più “prevenzione”, se si parla di violenza.

    Si fa ancora fatica a parlare di sessualità in relazione al mondo dell’infanzia. Lei che ne pensa?

    Deve essere chiaro che, se si vuole fare una prevenzione che funzioni, bisogna cominciare dai bambini piccoli. Perché, quando si fa prevenzione dalla terza media in poi, è già un po’ tardi e forse a quel punto non si può chiamare neanche più “prevenzione”, se si parla di violenza. Ma basti pensare all’educazione stradale, che viene insegnata ai bambini affinché possano interiorizzare determinate regole comportamentali, così da essere protetti da determinati pericoli. Noi facciamo la stessa cosa, forniamo alle bambine e ai bambini dei kit di sopravvivenza per quanto riguarda la violenza. E non bisogna pensare che questo kit contenga solamente consigli come il classico “non parlare con gli sconosciuti”. Noi insegniamo cosa fare nel momento in cui questo avviene, perché di fronte ad un bambino preparato che sa urlare “no” e che poi sa scappare, un pedofilo si terrorizza. I pedofili che purtroppo riescono nel loro intento, riescono proprio perché trovano un bambino privo delle difese necessarie per reagire alla situazione. Bisogna capire che i bambini non possono essere controllati costantemente, ecco perché è necessario fornire loro fin da subito gli strumenti di difesa necessari per saper affrontare i pericoli al meglio delle loro possibilità. 

    Immagino che l’argomento della pedofilia possa spaventare i genitori. O mi sbaglio?

    È proprio così, infatti la maggior parte delle volte sono proprio i genitori a non essere pronti ad affrontare l’argomento, non i bambini. Parole come “abuso”, o nominare alcune parti del corpo più intime, mette molto più in imbarazzo gli adulti rispetto ai bambini. Il problema è che l’imbarazzo purtroppo si trasmette da genitore a figlio, di conseguenza ci capita di vedere il riflesso di quell’imbarazzo nei bambini. Per fare un esempio, noi facciamo un laboratorio in cui facciamo una cosa che chiamiamo “la danza del corpo”. Durante il ballo, chiediamo ai bambini quale parte del corpo stiamo muovendo in un determinato momento. È un modo per capire il livello di conoscenza del proprio corpo che hanno i bambini e le bambine. Quando a volte si indicano le parti intime, c’è una paralisi generale. C’è chi ride e c’è chi addirittura si gira per non vedere il dito che, ricordiamo, si sta limitando ad indicare una parte del corpo. A quel punto chiediamo il nome di quella parte del corpo e, come primi nomi, escono tutti i nomignoli che girano per casa. Sembra una cosa banale, ma arrivare a chiamare le proprie parti intime col nome ufficiale, quello che userebbe anche il medico, è uno step importante per arrivare a creare un vocabolario necessario a saper comunicare poi un’eventuale violenza. Saper dire “quell’uomo mi ha toccato la vulva”, invece che sprofondare in un imbarazzo paralizzante, è fondamentale per salvarsi e non rimanere una vittima. Si ha invece spesso l’idea totalmente sbagliata e dettata da un’ansia profonda, che parlando di questi argomenti ai bambini si arrivi a privarli della loro innocenza, mentre in realtà la si sta preservando. 

    Spesso non sappiamo come chiedere aiuto, siamo privi degli strumenti necessari per reagire. È per questo motivo che si deve cominciare a lavorare già coi bambini.

    Per quanto riguarda il tema della violenza, sembra che la società sia abituata ad entrare nell’ottica dell’aggressore piuttosto che in quella della vittima. Lo si vede anche nel fenomeno del “victim blaming”, in cui si dice che la vittima in fondo “se l’è cercata”. Come mai?

    Guarda, non serve neanche prendere in causa la violenza sessuale per arrivare a parlare di questo fenomeno. Pensiamo a quando ci rubano il portafoglio. Invece che arrabbiarci per il reato che abbiamo subito, la prima cosa che pensiamo è che potevamo essere più attenti, perché così non ce l’avrebbero rubato. Ecco, quindi, che la responsabilità non ricade più sul ladro, bensì su di noi. Ora, se arriviamo a darci la colpa per un portafoglio rubato, immagina quando si parla di una violenza sessuale. Il portafoglio viene sfilato da una tasca, o da uno zaino, mentre nella violenza sessuale si raggiungono le parti intime. Questo ci può portare a pensare che le nostre difese fossero talmente basse da aver permesso alla persona in questione di violare il nostro corpo senza disturbo. Arriviamo a pensare “sono io ad averglielo concesso”. Ci sentiamo in colpa per esserci paralizzati, senza realizzare che in realtà è tutto provocato dall’aggressore. E questo ci riporta al problema principale: non sappiamo come chiedere aiuto, siamo privi degli strumenti necessari per reagire. È per questo motivo che si deve cominciare a lavorare già coi bambini.

    Capita anche spesso che le violenze confessate vengano molto ridimensionate, al punto da pensare che la vittima possa aver mal interpretato. Cosa ne pensa?

    Questo è il secondo problema: si fatica a credere a chi testimonia di aver subito una violenza. Spesso i bambini chiedono aiuto, ma non vengono creduti. Per far capire quanto grande è questo ostacolo, faccio un esempio. Uno dei motivi per cui alcune scuole ti dicono che non vogliono avere un intervento di prevenzione con bambini piccoli sulla violenza sessuale è, cito testualmente, “non vorrei che poi si creasse dell’allarmismo”. Temono, quindi, che il parlare di violenza possa causare una paranoia generale nella mente dei bambini. Questo accade perché nella nostra società alcune forme di violenza vengono ancora minimizzate. Il fatto di urlare a un bambino e di sottoporlo ad un castigo umiliante di fronte alla classe, ad esempio, viene minimizzato con il classico pensiero “beh, ma ai miei tempi si veniva su a suon di schiaffoni”. Quindi, considerare questo comportamento come una violenza, viene vista come una reazione esagerata. Inoltre, molte bambine e bambini sono vittime della violenza assistita, ovvero dell’essere presenti durante una violenza che avviene all’interno delle mura di casa. Un forte litigio costante tra genitori diventa una violenza di cui diviene vittima anche il bambino che assiste. L’errore che si fa è semplice: siccome una cosa accade spesso, come i violenti litigi tra coniugi, allora è normale. Questa conclusione è falsa. Infatti, molti episodi di bullismo non sono altro che la riproposizione nell’ambiente scolastico di quello che il bullo vede a casa. La violenza, anche se “solo” vista, viene interiorizzata e, se non si interviene, continua a tramandarsi.

    Siamo portati a pensare che a Bolzano certe cose non succedano, forse perché ci pensiamo come un paesino privo dei pericoli di una metropoli. Ma com’è realmente la situazione?

    Quando partecipiamo a delle conferenze stampa a tema, la prima cosa che ci viene chiesta è una statistica. A quel punto io dico sempre che noi possiamo fornire tutte le statistiche che vogliamo, ma purtroppo non saranno mai rappresentative della realtà, perché bisogna tenere a mente che per ogni persona che denuncia ci sono dieci che non lo fanno. Progressivamente si sta prendendo più coraggio e quindi negli anni le denunce stanno aumentando, ma non siamo ancora ad un buon punto. La maggior parte delle violenze non vengono rivelate, ed è per questo che non bisogna avere paura di cominciare a parlarne già ai bambini. Non c’è nessuna innocenza che viene violata all’interno della prevenzione, anzi, come già si è detto, l’obiettivo è continuare a preservarla il più possibile.