Il virus invisibile
Esiste un prima. Ed esiste un dopo. L’Hiv, il virus bastardo che non ti molla più, scava un taglio netto nelle esistenze delle persone colpite. Una lacerazione profonda del vissuto che non si rimargina e costringe a riprogrammare tutto: dalla cura della salute, faticosa, accompagnata da continue paura e tensione, alla vita di relazione, fino ad arrivare a quella lavorativa. Nonostante decenni di campagne informative, centinaia di film, libri ed articoli, il pregiudizio e lo stigma rimangono. Questa è la situazione anche in Alto Adige.
“Qui è quasi peggio che altrove perché è difficile contare sull’anonimato che è la regola nelle grandi città”, afferma Pierpaolo Patrizi, lo psicologo e psicoterapeuta di origine romana che segue persone sieropositive e malate di Aids dal 1984 e che, da 25 anni, dirige il servizio Iris della Caritas altoatesina. Lo incontriamo nel suo studio di via Cassa di Risparmio, a Bolzano: una stanzetta nel piano interrato di Casa San Michele, che è anche la sede del servizio. L’ambiente è silenzioso ma accogliente. I tappeti colorati, le poltrone e i divani predispongono l’ospite al benessere. Lo spazio di incontro deve essere così, penso. Soprattutto quando a chiedere aiuto sono persone già allo stremo delle forze psicologiche, come chi ha scoperto di essere sieropositivo o sta cercando di rimettere in ordine i pezzi della propria esistenza sconvolta dal virus.
La nostra è una terra piccola, relativamente chiusa, dove tutti conoscono tutti e nascondersi si può rivelare molto difficile (Pierpaolo Patrizi)
“La condizione sociale delle persone è pesantemente modificata dall’irrompere dell’Hiv. La nostra è una terra piccola, relativamente chiusa, dove tutti conoscono tutti e nascondersi si può rivelare molto difficile. Il virus dell’Hiv e l’Aids, per giunta, coinvolgono le sfere della sessualità e della morte e vanno perciò a toccare nodi simbolici molto profondi”, aggiunge Patrizi. Nella sua vita, non solo professionale, lo psicologo ha probabilmente incontrato più persone sieropositive e malate di Aids che persone sane. Lui ci scherza un po’ su ma poi chiarisce: “Le incontro come tutti, solo che io lo so, mentre la maggior parte della gente non lo sa”.
Il servizio Iris della Caritas rientra nel Progetto nazionale AIDS di Caritas Italiana – che prevede attività di sensibilizzazione ed educazione sulle tematiche dell’Aids e dell’Hiv - e, in Alto Adige, nel ’93, quando è stato creato, ha rappresentato una offerta pionieristica di sostegno alle persone che convivono con il virus. Prima infatti, esistevano solo il Reparto Infettivi dell’ospedale di Bolzano e, per le persone senza un luogo dove vivere e in fase terminale, Casa Emmaus – sempre gestita dalla Caritas - a Laives. I responsabili dell’organizzazione, assieme allo psicologo, allora capirono che l’autentica sfida e il bisogno più urgente non era accompagnare le persone colpite verso una morte dignitosa, ma aiutarle a vivere. “Il che voleva dire aiutarle a fare i conti, spesso, con una condizione di morte sociale e affettiva. Per capire come riafferrare una vita che andava riorganizzata sotto tutti gli aspetti, l’aiuto di uno psicologo era indispensabile”, precisa Patrizi.
Il servizio ora, oltre che sull’apporto specialistico dello psicoterapeuta, conta anche su un musicoterapeuta, il maestro Roberto Ghiozzi, e su 12 volontari che seguono gli utenti nel servizio, a domicilio, in ospedale. Stanno loro vicino nei momenti più difficili, li vanno a trovare, soprattutto li ascoltano. In parole povere, cercano di costruire con loro relazioni “normali”, quelle che più mancano a chi è sieropositivo e che in Iris si sente accettato per quello che è, senza essere giudicato.
Mentre stiamo parlando, qualcuno bussa alla porta. Patrizi si alza dalla poltrona e apre la porta. Entra un uomo di mezza età, Valerio*. Patrizi lo abbraccia forte. Colpisce l’approccio che non è quello distante e asettico tra paziente e terapeuta. La persona, qui, è accolta nella sua interezza e questi gesti spontanei rappresentano bene il calore umano che dà forma al servizio. “Qui mi sento a mio agio. Ci sono persone che dopo tanti anni considero cari amici. Per lungo tempo, questa stanza è stata l’unico luogo in cui mi sentivo me stesso e accettavo la mia nuova identità di persona sieropositiva”, afferma Valerio, prima di mettersi a sedere.
È quello che si definirebbe un bell’uomo. 43 anni, più alto della media, magro ma con una forte muscolatura. Se non suonasse irrispettoso, lo si potrebbe definire il ritratto della salute. In realtà, Valerio è sieropositivo da quando aveva 27 anni. Ha accettato di incontrarci per la nostra insistenza e perché siamo una testata amica della Caritas. “Ora, in una situazione protetta come questa, riesco a parlare della mia storia anche ad estranei ma, per molti anni, ho sofferto un’immensa solitudine perché, terrorizzato dall’idea di essere ‘smascherato’, rifuggivo ogni contatto che non fosse superficiale”, ammette. Valerio viene da una grande città del Nord Italia e, dopo aver terminato gli studi di Economia, è arrivato in Alto Adige per una proposta di lavoro e per seguire la compagna e convivente di quei tempi, altoatesina.
“Non ho mai avuto tante ragazze, anzi le mie poche storie sono sempre state relazioni importanti. Prima di conoscere P., la donna per la quale mi sono trasferito a Bolzano, in vacanza in Spagna, ho avuto un’avventura di qualche giorno con una ragazza conosciuta in spiaggia. Abbiamo fatto l’amore. Una notte non mi sono protetto e ho contratto il virus”, ricorda Valerio. Parla con grande calma, senza apparente amarezza: “Ero perfettamente consapevole dei rischi ma trasportato dalla passione ho pensato che non mi sarebbe successo niente. ‘Non toccherà mica a me’, mi sono detto”.
Per un po’ di tempo sembrò che fosse effettivamente andata così. Un giorno, in estate, poco dopo essersi traferito a Bolzano, decise di andare dal medico perché si sentiva strano, continuamente affaticato. Inizialmente Valerio pensò fosse una reazione del corpo allo stress del nuovo lavoro e al caldo. La dottoressa gli prescrisse delle analisi del sangue e anche il test per l’Hiv. “Andai al reparto Infettivi dell’Ospedale di Bolzano. Dopo il prelievo ricevetti un codice con cui ritirare le analisi. Ero tutto sommato tranquillo, non mi sfiorava l’idea di poter essere infetto. Quando lessi i risultati, fu come ricevere un pungo nello stomaco, a freddo. Non riuscivo a credere che fosse vero. Guidando verso casa, scoppiai a piangere”, racconta. Dopo due giorni di tormento interiore, Valerio trovò il coraggio di dirlo alla compagna. “Fece subito il test e risultò sieronegativa. Ma poco dopo mi annunciò che non sarebbe riuscita a stare con me e mi lasciò. Mi ritrovai solo, in una provincia in cui non avevo legami forti e malato, non proprio una situazione facile”, spiega, “diverse volte ho pensato al suicidio, ma non ho mai trovato veramente il coraggio. Poi ho conosciuto Pierpaolo e l’Iris. Grazie alla psicoterapia e agli incontri con loro, ho risalito la china, anche se è costata e costa ancora molta fatica. Forse mi ha aiutato anche il mio orgoglio e la testa dura. Volevo vedere come sarebbe andata avanti”.
Quando lessi i risultati, fu come ricevere un pungo nello stomaco, a freddo. Non riuscivo a credere che fosse vero. (Valerio)
I trattamenti a base di un cocktail di farmaci antiretrovirali, interamente passati dal sistema sanitario nazionale, sono pesanti per il fisico ma permettono a gente come Valerio di avere un’aspettativa di vita quasi pari a quella delle persone sieronegative. Lui continua a frequentare il servizio Iris, ma non ha mai più avuto compagne da quando è sieropositivo. È questa forzata assenza di affetti l’ipoteca più pesante che l’Hiv ha posto sulla sua vita. Avrebbe voluto avere una famiglia “ma”, sottolinea, “me ne sono fatto una ragione. Mi ripeto che anche molte persone senza il virus, per una ragione o per l’altra, non ci riescono e così mi sento uno dei tanti”.
Di Aids e di Hiv, e su questo sia Patrizi che Valerio sono d’accordo, se ne parla ancora poco e male. La prova è che la gente continua ancora a infettarsi e ad ammalarsi. Forse sono addirittura stati fatti dei passi indietro, in termini di consapevolezza. Adesso molte nuove infezioni avvengono negli adulti tra i 35 e i 50 anni e molti scoprono di avere l’Aids conclamato solo grazie a una diagnosi tardiva. Le cure ci sono ma la malattia condanna ancora la persona alla solitudine, che è anche il nemico più grande. “Le persone sieropositive sono molto consapevoli e proprio perché hanno vissuto sulla loro pelle il dramma di una vita nell’ombra, sono molto attente agli altri”, conclude Patrizi, “bisogna aumentare la sieroconsapevolezza. Semplicemente, bisogna che ognuno di noi impari a volersi bene, a proteggersi e a proteggere l’altro, rifiutando rapporti senza preservativo”.
*nome inventato per tutelare la persona