Books | Il libro

Da questa parte del mare

Gianmaria Testa, il cantautore scomparso da poco, ha scritto un libro poetico e intenso sul fenomeno delle migrazioni.
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Foto: Salto.bz

Il cantautore piemontese Gianmaria Testa è morto il 30 marzo 2016 all'età di 57 anni. Adesso, a distanza di poche settimane, è uscito un piccolo libro (Da questa parte del mare, con una prefazione di Erri De Luca, Einaudi) che ce lo rivela anche straordinario prosatore e raccontatore di storie, tutte cucite attorno all'omonimo progetto discografico basato sul tema delle migrazioni che aveva già visto la luce 10 anni fa. Neppure cento pagine: ci sono i testi delle canzoni, ci sono altre poesie e ci sono, per l'appunto, storie vere, intrecciate a frammenti autobiografici, che toccano con grande sensibilità quello che è – e sarà sempre di più – il mondo di oggi e di domani: “Ho l'impressione che nei confronti del fenomeno per noi recente delle migrazioni abbiamo avuto uno sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti. Siamo stati in difesa, non abbiamo capito l'emergenza e soprattutto abbiamo dimenticato che soltanto fino a due generazioni fa partivano i nostri e trovavano gli stessi ambienti duri e inospitali che noi stiamo ricreando per chi arriva adesso in Italia”.

La poesia di Testa è esattamente questo: un modo per opporsi al mondo della chiacchiera che fa emergere la parte meno nobile di tutti noi. In cambio della parola gridata, sciupata, sprecata, qui abbiamo esattamente l'opposto. La parola sussurrata e la parola salvata. Un po' come la “luna del pomeriggio” (immagine cardine dell'opera di Testa), che fa fatica a stagliarsi nel cielo, perché tutti scordiamo non solo che ci sia, ma persino che ci possa essere.

Tra le storie più commoventi del libro c'è quella di Tino (Il passo e l'incanto). Tinochika, “Tino”, che dopo aver vissuto da scampato in Italia per alcuni anni “di fatiche e umiliazioni” decide di tornare a Lampedusa per ritrovare la memoria di una donna, del suo sguardo, al quale rimase appeso nella traversata terribile dall'Africa all'isola diventata ormai simbolo di tutta questa grande epopea. “Quando sono sbarcati, Tino ha raccolto tutte le forze che aveva per tendere la mano alla donna e aiutarla a scendere. E' stato il primo e anche l'unico contatto fisico che abbiano mai avuto”. Una tenerezza impastata di rimpianto, tenerezza straziante e poi necessità di un ritorno: “L'incanto in quegli occhi neri di sabbia e sale / occhi negati alla paura e al pianto / occhi dischiusi come per soltanto / rifugio al delirio freddo dell'attraversare / occhi che ancora mi sento accanto / ci siamo perduti qui / rubati dell'incanto, ci hanno divisi qui / e non ritrovo il passo”.

Oppure, alla fine, l'indimenticabile ritratto di madre, la stessa madre dell'autore, donna del 1934 passata attraverso una vita di poche parole, e di gesti silenziosi, come quelli del contadino che allarga il braccio a seminare il grano, e poi torna a passi lenti verso casa, una casa con “la porta costantemente aperta”.

Sarebbe veramente bello se molte persone si accostassero a questa opera così lieve e al contempo intensa, magari per riscoprire (come in un certo senso ho fatto io) un autore scioccamente considerato “di nicchia”, ma il cui successo – ne sono convinto – andrà a crescere sempre di più, assieme al suo grato ricordo.