Ricordo di Maria Luisa Spaziani

Il 30 giugno scorso è morta a Roma la poetessa Maria Luisa Spaziani. Laura Mautone ricorda alcuni momenti salienti della biografia e della sua opera letteraria.

La poesia ha perso in questi giorni una voce limpida e forte. A 91 anni è morta nella sua casa romana di via Cola di Rienzo Maria Luisa Spaziani, una delle muse ispiratrici di Eugenio Montale. Era “Volpe” per lui, una delle protagoniste de La Bufera e altro (1956). Se t’hanno assomigliato / alla volpe sarà per la falcata / prodigiosa, pel volo del tuo passo / che unisce e che divide, che sconvolge / […] o forse solo per l’onda luminosa che diffondi / dalle mandorle tenere degli occhi […] Così l’aveva descritta, segno e simbolo incarnato della vitalità più pura, donna salvifica e teofora come Clizia, ma con in più lo scatto della vita, una luce negli occhi, la naturale vitalità nel corpo.

Era nata a Torino nel 1922 in una famiglia benestante, il padre era un industriale del ramo dolciario. Da lui aveva preso un certo linguaggio immaginifico. La madre, invece, era figlia di agricoltori dell’Astigiano: da lei le derivava una sensibilità d’animo e quel suo legame vitale con la terra, con la natura. Torino, negli anni della sua giovinezza, era una piccola Atene; tante tra le menti più brillanti dell’epoca nell’arte (Filippo Casorati), nella letteratura, nella filosofia (Vincenzo Ciaffi), nella scienza (Rita Levi Montalcini), risiedevano nel capoluogo piemontese. A diciannove anni, ancora studentessa universitaria di Lingue, si laureerà con una tesi sulla Recherche di Proust, fonda una piccola rivista – Il Girasole – e poi – Il Dado: si tratta di esperienze che le consentono di entrare in contatto con grandi poeti come Umberto Saba, Sandro Penna, Leonardo Sinisgalli, dei quali pubblica anche alcune poesie. Pubblica anche versi di poetesse straniere, come Virginia Woolf. Simbolisti ed ermetici in Italia allora non parlavano molto tra di loro, la rivista diviene un importante luogo di confronto. Nel 1949, in occasione di una conferenza a Carignano, avviene l’incontro destinale con Montale. In un’intervista a casa sua a Roma realizzata nel dicembre del 2011, insieme a Raffaella Ranise, mi raccontò che conosceva a memoria gli Ossi di seppia, li aveva letti in pineta e trasportati ovunque sul manubrio della sua bicicletta. Quel giorno era molto emozionata: finalmente avrebbe incontrato un poeta in carne ed ossa, non Leopardi! Lo adorava: diceva come chi aveva scritto Mediterraneo doveva essere comunque un Dio. Alcuni la misero in guardia circa il carattere scostante di Montale, in realtà fu lui a domandarle come mai non l’aveva mai invitato a scrivere per la sua rivista: a quell’incontro seguì un invito a pranzo domenicale a casa dei suoi. Quando la madre, abituata a sentir parlare di Proust, seppe che sarebbe venuto a pranzo Montale, la figlia gliene parlava come di un Dio, reagì dicendo: Meno male che Proust è morto. Da quella volta in occasione di ogni visita Montale porgeva alla madre le sue scuse per non essere defunto. Ne nacque un sodalizio fatto di poesia, risate e passione, che si interruppe solo con il trasferimento a Roma della poetessa, all’epoca legata sentimentalmente a Elémire Zolla. Si scrissero 360 lettere a testimonianza di una stretta relazione, lui ne era innamorato, e nel 2011 la Spaziani ha raccontato quella sua amicizia un po’ speciale nel volume Montale e la Volpe: un libro senza cravatta, come lo aveva definito lei stessa in quell’occasione.

Nel 1954 si reca a Parigi con una borsa di studio e nel frattempo esce la sua prima raccolta di poesie nella prestigiosa collana Mondadori de Lo specchio, intitolata Le acque del sabato. Vince subito il premio Internazionale Byron. In quel periodo insegna francese in un liceo di Torino e, dopo il matrimonio con Zolla nel 1958, prima letteratura tedesca e poi lingua e letteratura francese all’Università di Messina. Forte sarà sempre il legame con la Sicilia, anche quando si trasferirà definitivamente a Roma. Nel 1960 si separa dal marito e pubblica altre raccolte di versi, Il Gong (1962) e Utilità della memoria (1966), L’occhio del ciclone (1970),  tutte e tre premiate. Nel frattempo escono suoi saggi su Proust, sul teatro francese del Seicento, su quello del Settecento e del Novecento. Nell’ambito della letteratura francese ha tradotto numerosi libri in versi e in prosa, da Ronsard a Cocteau, da Racine a M. Yourcenar e addirittura Madame Bovary di Flaubert. Nel 1978 fonda il Centro internazionale Eugenio Montale, di cui è Presidente per molti anni. Entra a far parte di numerose giurie di premi letterari e stringe contatti con grandi intellettuali italiani e internazionali, tra i quali Borges, Pound, Bachmann e Picasso. Altre sue fondamentali raccolte di poesie sono Transito con catene, Geometrie del disordine, La stella del libero arbitrio, I fasti dell’ortica fino alle ultime La traversata dell’oasi (2002), La luna è già alta (2006) e L’incrocio delle mediane (2009).

Nel 2012 è uscito il Meridano Mondadori che raccoglie la sua opera completa, a cura di Paolo Lagazzi. Già nel 1979 era stata pubblicata una prima raccolta completa con introduzione di Luigi Baldacci. Parlava della sua poesia come di una poesia che dice cose brucianti con una classica compostezza. Italo Calvino l’aveva definita insieme ispiritata e spiritosa, sottolineando la portata epifanica dell’ironia, del gioco verbale e la sua capacità di esprimere una saggezza quasi sapienziale, leggera e profonda insieme.

Poeta e non poetessa, così amava definirsi, quando venne a Merano nel 1997 e presenziò all’inaugurazione come madrina della Via della Poesia, una passeggiata ombrosa, quasi una sosta meditativa, che scorre come un ossimoro lungo il fiume Passirio e taglia in due la città. Lungo il fiume da sempre sono poste a completare l’arredo urbano delle panchine in legno. All’epoca, era il 1997, sono state reinventate dall’artista Marco Nereo Rotelli, che le ha incise con i versi di alcuni tra i più grandi poeti del Novecento, italiani e stranieri. La poesia per lei era un nuovo modo di vedere le cose, rompere la consuetudine e trovare un alone nuovo attorno ai soliti oggetti e alla solita vita: ogni persona per lei doveva cercare il proprio bersaglio, la propria meta e raggiungerla come si raggiunge una verità appena intuita. In questo modo si vedeva destinata alla poesia, con un’impronta, come una palla di cera che lascia una traccia, al di là e ancora prima dell’incontro con Montale.

Della sua relazione con Montale ricordava il suo stupore e la sua leggerezza: si era stupito il più grande poeta del ‘900, secondo la Spaziani, quando alla vista di un rospo che saltava lei stessa aveva reagito con un tono neutro, pacato, cristianamente fraterno, segnando quasi una naturale connessione con il mondo naturale che a lui, invece, era fondamentalmente estranea. Si capivano al volo, erano complici, lei conosceva anche il lato scanzonato e leggero di Montale: ricordava una volta in cui si era vestito da baiadera e si era messo a ballare nel salotto di casa. Quante risate avevano fatto ... Ci consegna così l’immagine meno seriosa e impettita di un Montale attaccato alla vita, nonostante la sua ricerca di senso sempre lontana e irraggiungibile, in un universo come quello novecentesco senza più alcun punto di riferimento saldo.

I due libri a cui teneva di più erano La traversata dell’oasi e Giovanna d’Arco, un poema teatrale in endecasillabi, scritto quasi di getto e pubblicato nel 1990: il primo perché celebra la forza bruciante di un amore senile in un inedito canzoniere ironico e classico insieme, il secondo perché ha a che fare con l’essere donna e protagonista della storia, come Caterina di Russia, Zenobia Settimia e Magnolia, alias Mulan, guerriera cinese che combatté contro i Tartari.

La poesia era per lei affidata a lampi di grazia, a momenti di imponderabile isolamento, che fanno calare una sorta di campana di vetro attorno a chi scrive e a chi legge, come quando una madre dorme vicino al figlio neonato e si crea una campana di vetro che nulla e nessuno può scalfine. Come quella volta in banca, in cui dettò una poesia alla sua segretaria in mezzo alla folla o quell’altra volta quando il telefono di casa squillò mentre lei scriveva e lei era come in un altro mondo, tanto da ricordarsene solo molte ore dopo.

La ricordo in una casa sommersa di libri, ospitale e gentile, raffinata nei suoi modi anche semplici, ma mai negletti. Ricordo le sue parole di speranza in un mondo in cui tutto è diventato commestibile e consumabile, tutto è subitaneo guadagno, in cui la poesia può aspettare il tempo dell’ascolto, può diventare poesia civile e condividere in senso cristiano, con empatia, il proprio dolore e la propria gioia con gli altri. Fa riferimento a tutto ciò che ci circonda la poesia: in una foglia che cade il poeta, secondo la Spaziani, vede una stratificazione archetipica di tutte le foglie cha ha visto cadere nella sua vita. La parola può essere crusca, può essere farina, pane, dipende dal grado di elaborazione che ha subito. Può nutrire o affamare, può essere cosciente o avvenire per caso, così Spaziani.

Ora una voce della poesia non risuonerà più. Saranno i suoi versi ad essere musica e noi ci sentiremo meno poveri, senza di lei, se leggeremo i suoi versi e magari li manderemo anche a memoria, accompagnandola nel suo ultimo lungo viaggio.

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*Laura Mautone insegna Italiano e storia in una scuola superiore di Merano. Attraverso una serie di interviste, raccolte in un volume intitolato Che cos’è la poesia? (Mantova, Corraini, 2002), ha avuto modo di conoscere alcuni tra i più importanti poeti italiani del Secondo Novecento. Nel 2005 ha pubblicato con Traven Books e la prefazione di Gregorio Scalise la prima raccolta di poesie, intitolata Dell’amore e di altri aneurismi. La seconda raccolta, intitolata Acufeni nel cuore, è uscita nel 2007 con la casa editrice Raffaelli di Rimini e la prefazione di Mary de Rachewiltz. A giugno ha pubblicato la sua terza raccolta di poesie, intitolata Come sabbia come neve, presso Edizioni alpha beta Verlag, con la prefazione di Maria Luisa Spaziani.