Syriza e solidarietà
La Grecia in cifre fa paura: 30% della popolazione sotto la soglia di povertà, stipendi scesi del 30% dall’inizio della crisi, disoccupazione che sfiora il 30% (il doppio tra i giovani), il 30% della popolazione senza accesso alle cure mediche. Siamo nel paese del 30%. Allo stesso tempo la Grecia è anche al primo posto in Europa (dati OCSE 2012) per ore lavorate con 2.017 ore a testa, ovvero chi lavora non ha vita, e gli altri fanno la fame.
Nonostante tutto ciò dalla vittoria di Alexis Tsipras e Syriza dello scorso Gennaio si sente parlare in Grecia di un nuovo ottimismo – pare scongiurato almeno per ora il pericolo di grandi rivolte e lo spettro di un’ascesa al potere dell’estrema destra viene ridimensionato.
Uno dei punti di forza di questa Syriza è il rapporto con il territorio rinsaldato da un network di iniziative sociali che fanno capo proprio alla sigla di Tsipras, che tentano con il poco a disposizione di aiutare le famiglie ad andare avanti: ospedali dove medici e infermieri lavorano gratuitamente, farmacie sociali che distribuiscono medicinali per bambini, “social kitchens” dove si cucina per chi soffre la fame e, non ultimi, negozi di quartiere che vendono prodotti locali a prezzi vantaggiosi.
Della rete di iniziative sociali di Syriza fa parte Tonia Katerini, tra i 15 membri del comitato di coordinamento dell’associazione “Solidarity for all”. Questo gruppo nasce nel 2011 per unire diverse iniziative in ambito sociale – ad oggi sotto questo cappello si contano 55 centri per la solidarietà, 21 per la salute e 36 nuove cooperative di vario tipo. Tonia di professione è architetto, ma oggi dedica buona parte del suo tempo a questa attività.
La incontriamo nel negozio SESOULA, nel quartiere Exarchia e quindi in pieno centro ad Atene, a due passi dall’università ma fuori dalle zone più care. Si tratta di un piccolo negozio di quartiere, due vetrate, fuori delle patate esposte in casse colorate, dentro su semplici scaffali in legno si vedono caffè, frutta e verdura, tutto quello che può servire. Nel mezzo del piccolo locale un tavolo di legno con due sedie. Il negozio non solo come fabbrica di profitti, ma anche posto per incontrarsi e parlare. Fondamentale per la possibile rinascita di una nazione stremata.
Bel negozio signora Tonia. Vendete un po’ di tutto qui?
Sì, come vede ci sono spezie, noci, legumi, farina, ma anche bibite e altro, tutto di produzione locale. Molti clienti vengono volentieri da noi a fare la spesa, ma poi capita che debbano comunque andare in un supermercato per cercare una cosa che da noi manca. Per questo abbiamo fatto di recente un sondaggio tra i clienti, chiedendo ad ognuno cosa gli piacerebbe trovare nei nostri scaffali. Cercheremo di avere un prodotto per categoria, per soddisfarli tutti. Ad esempio lì vede un detersivo per piatti, anche quello di produzione locale, è l’ultima novità.
Si tratta quindi di un negozio con prodotti bio- e locali per gente con la passione del sociale, con prezzi alti fuori dalla portata dei più deboli?
Assolutamente no. I prezzi sono contenuti, più bassi che nella grande distribuzione. Solo per alcuni prodotti sono più alti, ma sono eccezioni dove ad un prezzo leggermente maggiore offriamo prodotti alimentari di qualità nettamente superiore rispetto alla concorrenza tradizionale.
Come riuscite a contenere i prezzi se avete solo merce di produttori locali, senza ricorrere alla produzione di massa?
Il 60% di ciò che vendiamo arriva direttamente dal produttore, soprattutto l’alimentare. Altri prodotti, più elaborati, li prendiamo da intermediari, ma si tratta sempre di produzione locale. Noi diciamo “cheap food good food” – risparmiamo perché non ci sono imballaggi, non c’è pubblicità. Compriamo farina, semi e spezie e li vendiamo in sacchetti nostri. Si risparmia sull’inutile e così con meno soldi si ottiene una qualità migliore. I clienti vengono non solo per risparmiare, ma anche per la qualità.
Sembra facile così. Secondo qualcuno vi mantenete grazie ai fondi che ora vi arrivano dal governo, da Syriza, e quindi si tratta di altri sprechi di risorse pubbliche.
Syriza ha un fondo in cui va il 20% dello stipendio dei suoi parlamentari. Questi soldi vengono usati per pagare le iniziative di tipo medico, come gli ospedali per chi non ha più assicurazione, e sociale, come le “social kitchens”. Per quanto riguarda il nostro network Solidarity for all, solo i membri del comitato (una decina di persone) ricevono uno stipendio. Questi lavorano full-time o part-time per il progetto, organizzano, cercano fondi, tengono conferenze e si muovono tra Atene e il resto d’Europa. Gli altri non ricevono nulla – ad esempio questo negozio non ha fondi dal governo per sopravvivere.
Se non siete sovvenzionati come riuscite a mantenervi pur avendo prezzi bassi?
Ci riusciamo, dato che a un anno e mezzo dall’inizio dell’attività siamo in parità di bilancio. Riusciamo a pagare le spese, l’affitto e gli stipendi senza chiedere nulla ai soci della cooperativa. Il nostro capitale per il primo anno di attività è stato il capitale umano – diversi volontari che hanno permesso di ingranare. E questi continuano a fare la differenza anche adesso, per la continuazione.
La forma giuridica di questo negozio è quindi la cooperativa?
Si tratta di una cooperativa sociale. Ci sono alcune limitazioni, ad esempio se produciamo un profitto dobbiamo usare questo o per perseguire i fini della nostra cooperativa stessa, oppure per pagare gli stipendi degli assunti. Ogni guadagno viene reinvestito per lo scopo, ovvero fornire prodotti non solo alimentari a prezzo contenuto sostenendo allo stesso tempo i produttori locali. Recentemente c’è stata una riforma che ha permesso il lavoro volontario per le cooperative – prima di allora avremmo dovuto assumere tutti e pagare i contributi come in ogni altro rapporto di lavoro. Ora possiamo avere dei lavoratori volontari, che aiutano in quanto soci della cooperativa, senza alcuna retribuzione. Per il futuro una delle idee sarebbe quella di usare gli eventuali profitti per lanciare Banca Etica greca, sul modello di quella italiana.
Voi che lavorate qui chi siete? Lavorate gratuitamente? Non avete bisogno di soldi?
Come detto solo circa dieci persone di tutta la rete nazionale sono stipendiate direttamente da Solidarity for all: si tratta di quelli che si occupano dell’organizzazione e della promozione, anche a livello internazionale. Anche nelle singole cooperative, come questa, lavorano quasi tutti su base volontaria. Ci sono pensionati che hanno tempo da dedicare a un’attività che rafforza la comunità di quartiere, ci sono giovani studenti come Ianis (giovane commesso presente in negozio, ndr), che finita l’università sono in cerca di lavoro, e nel frattempo aiutano qui, sentendo di fare una cosa sensata. Ci sono poi persone che lavorano part-time in altri settori, e dedicano il resto della loro giornata ad un’attività che dà loro la sensazione di fare qualcosa di utile.
Non avete dipendenti in negozio?
Lo scorso settembre in una riunione abbiamo deciso di non assumere. In realtà non c’era nessuno disponibile ad intraprendere un incarico a tempo pieno qui, anche se retribuito, quindi andiamo avanti così, in squadra. Noi come cooperativa possiamo contare sul lavoro volontario oppure possiamo assumere, pagando tutti i contributi come ogni azienda. Capita in talune cooperative di assumere un volontario, trasformando quindi il rapporto con lui, quando un’attività va particolarmente bene, per rendere più stabile la collaborazione e anche per ricompensare in questo modo chi si sia impegnato maggiormente.
Le spese sono minori perché chi lavora lo fa gratis?
Come detto, abbiamo prodotti privi di imballaggi e di pubblicità, e questo fa la differenza. Poi abbiamo persone che per un’ideale, per il desiderio di rendersi utili ci regalano parte del loro tempo, e quindi sì, lavorano gratis. Alcuni altri negozi ci guardano male, perché avendo commessi “gratuiti” possiamo abbattere i prezzi in modo più incisivo. Ma il nostro capitale è quello umano, e l’obiettivo della cooperativa non è il profitto del singolo.
Parlando di dettagli pratici, come si fa ad aprire un negozio di alimentari di qualità superiore e prezzi inferiori alla media nel centro di Atene? Si tratta di un’iniziativa riservata ai ricchi appassionati del sociale?
No, per niente. In realtà basta poco, e posso fare l’esempio di Sesoula (il negozio dove ci troviamo, ndr). Circa due anni fa ci siamo trovati in 15 conoscenti con l’idea di aprire un’attività di questo tipo nel nostro quartiere. Nessuno di noi aveva tanti soldi da mettere in gioco, e così l’investimento iniziale fu tra i 20 e i 50 € a testa.
Non di più?
No. Con quei soldi organizzammo una festa all’aperto, nel quartiere, con lo scopo di far conoscere il progetto e di raccogliere fondi. Abbiamo cucinato e portato da bere, ognuno di noi 15 conosceva molte persone in zona, e così sono venuti in tanti. Quel giorno abbiamo raccolto più di 600 €. In seguito abbiamo chiesto un prestito di 1000€ ad uno di noi fondatori che se lo poteva permettere. Con questi soldi abbiamo preso in affitto il locale, privo di tutto, in Mavromichali (la via dove si trova il posto, ndr). Abbiamo comprato gli scaffali, dal costo di 90 € l’uno in un grande negozio di arredamento. Qui ci sono 3 frigoriferi, uno comprato usato a 100 €, uno regalatoci da uno dei soci e uno datoci in comodato da un’azienda da cui compriamo le bibite. La cosa più costosa è stata la cassa. Per quanto riguarda i lavori, dalla verniciatura alla piccola muratura, ci siamo alternati qui tra di noi nel tempo libero per sistemare il locale. Infine per i primi acquisti dai fornitori abbiamo sempre ottenuto la possibilità di pagare a 30 giorni dall’acquisto, cosa che ci ha permesso di vendere la merce e di pagare in un successivo momento.
Quindi, parlando di soldi, quanto costa aprire un negozio che venda prodotti di qualità, a buon mercato, alimentari e non solo, e che renda più vivo il quartiere di una città?
Per i primi due mesi di vita, necessari per ingranare nell’attività e cominciare ad andare in positivo non occorrono più di 3.000 €: con questi si sistema il locale, si paga l’affitto e le spese, si compra la merce, si organizza qualche piccolo evento per farsi conoscere.
Mi sembra di capire quindi che questo negozio si mantenga da solo oggi, abbia un bilancio in parità, e che tutto ruoti attorno a voi 15 soci e ai volontari. Ma che ruolo ha il network “Solidarity for all” in tutto ciò?
Il network rende tutto più semplice alle singole iniziative. Non si tratta di un’organizzazione che regala soldi a chi vuole mettersi in proprio, ma di un gruppo di persone che consigliano a sostengono chi voglia dar vita a qualche iniziativa nel settore del sociale.
Per cui se io venissi da voi domani dicendo “voglio aprire un negozio, mi aiutate?”, voi che fareste?
Prima di tutto diremmo “bravo, aprilo!”. All’inizio possiamo dare dei suggerimenti, dato che sappiamo come funziona tutto dal punto di vista dell’organizzazione, sappiamo cosa ci sia da fare con la burocrazia e conosciamo l’esperienza di altre attività simili. Abbiamo una rete di fornitori stabili e la nostra esperienza per l’organizzazione di eventi pubblicitari è preziosa. Una volta che uno dimostra con i propri soci di avere davvero la volontà necessaria per mettere in piedi una cooperativa di questo tipo, possiamo intervenire in modo pratico. Noi come Solidarity for all abbiamo un magazzino centrale dove teniamo ogni genere di tavoli, armadi, scaffali o frigoriferi. Quando decidiamo di sostenere una nuova iniziativa questa può utilizzare i nostri materiali. Se invece fosse necessario ad esempio un frigo che non abbiamo a disposizione, possiamo comprarlo noi come organizzazione e concederlo gratuitamente alla nuova iniziativa, con la sola condizione che se un giorno dovesse chiudere ci restituirebbe tutto, e noi lo daremmo quindi in prestito al prossimo che ne dovesse avere bisogno.
Ci sono degli esempi pratici?
Sì, ad esempio di recente sono venuti da noi dei giovani del quartiere Gkazi (quartiere del centro di Atene, ndr), dove dagli anni ’70 e ’80 vivono persone arrivate dal nord della Grecia di origine turca. Questa minoranza è spesso povera. Ci hanno chiesto di aprire un centro si solidarietà sociale nel loro quartiere e noi abbiamo consigliato loro come potersi far conoscere nel quartiere e come far girare la voce. Poi gli abbiamo detto di organizzare una festa con cibo e bevande per raccogliere fondi. Avevamo promesso di aiutarli prestando materiale, e che con parte dei loro profitti derivanti dalla vendita del cibo alla festa ci avrebbero ripagati. Loro hanno organizzato un bellissimo evento, a cui è venuta molta gente. Sono stati molto sorpresi dalla quantità di ospiti e dal grande interesse suscitato, e sono stati ancora più sorpresi quando gli abbiamo detto che non avremmo preso soldi per quell’evento, rinunciando alla parte per le nostre spese. La cosa più bella è vedere come all’improvviso si scopra di avere nel proprio quartiere così tante persone interessate a fare qualcosa che sia utile al prossimo.
Anche a me dareste questi consigli, se volessi tentare questa strada?
Certo, prima di tutto si tratta di avere una rete di contatti nella zona in cui si vuole operare. Bisogna conoscere le persone che poi dovrebbero diventare clienti. Quindi si tratta di dimostrare buona volontà organizzando qualcosa per promuovere l’iniziativa, e una festa dove si vende cibo e bevande è sempre un ottimo metodo. A questo punto potremmo dare anche il nostro sostegno materiale come organizzazione, inteso come soldi e attrezzatura, oltre che know-how.
Si parla sempre di network, di conoscenti. Contano più i “social network” o le persone reali?
Certo ci si può far conoscere anche con internet e con i social. Ma per queste attività è fondamentale la vita di quartiere. Bisogna frequentarlo e parlare con le persone che si incontrano al bar e nei locali. Qui vengono a fare la spesa giovani, anziani, disoccupati, impiegati o designer, tutti. Da noi si viene perché le cose sono di qualità migliore e costano meno che altrove, e si possono fare due chiacchiere tra vicini di casa. Inoltre i soldi vanno a produttori locali e non a multinazionali, ad esempio vendiamo un’alternativa greca senza zucchero alla Coca Cola, diffusasi dopo il boicottaggio di questa dopo che la multinazionale ha chiuso alcuni stabilimenti nel paese per trasferirli in zone dalla tassazione favorevole, non facendosi troppi problemi a licenziare persone in piena crisi economica. Bisogna conoscere le persone, spiegare loro l’importanza di queste cose, e poi invitarle di persona nel proprio negozio. Bisogna solo crederci e iniziare.