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Esami di empatia

Leslie Jamison si domanda se sia davvero possibile immedesimarsi nel dolore degli altri. Anche quando il dolore è immaginato o lo prova un ultimo della società.
Libro
Foto: NR

Compito ambizioso capire che cos’è l’empatia: per Edith Stein, "losofa, monaca e mistica tedesca, si tratta dell’immediata intuizione e partecipazione emotiva agli stati affettivi altrui; per Freud è un processo di immedesimazione che consente ad altre persone di capire l’Io estraneo; secondo l’etica confuciana l’empatia (shu) rappresenta una delle virtù considerate più importanti. Leslie Jamison la fa coincidere con l’attraversamento verso le sensazioni altrui, con l’immersione nel dolore altrui: “Empatia deriva dal greco empatheia – em (dentro) e pathos (sentimento) – una capacità di comprensione, una specie di viaggio. Suggerisce che si entra nel dolore di un’altra persona come si entra in uno stato, attraverso l’immaginazione e la dogana, attraverso il confine interrogandosi: che cosa cresce nel posto in cui ti trovi? Quali sono le leggi? Quali animali pascolano lì?”. Quella di empatia è una definizione che si va formulando da quando il termine era usato nel campo artistico, da quando cioè il concetto di Einfühlung (“empatia” o “simpatia simbolica”) era alla base della teoria estetica elaborata da Vischer e Lipps secondo la quale l’arte è l’immedesimarsi del sentimento nelle forme naturali, a causa di una profonda simpatia tra soggetto e oggetto. Una raccolta su come attraversare il proprio dolore e, soprattutto, quello degli altri rischia dunque di aggiungere poco o nulla a quest’annosa questione, a meno che non si concentri su coloro ai quali non viene concessa l’empatia. In Esami di empatia, uscito quest’anno per NR edizioni, Jamison attraversa numerose situazioni di malattie, sofferenze e lesioni vissute e subite anche in prima persona. L’autrice, indagando il dolore considerato immaginario, la condizione di privazione della libertà normalmente accettata e la retorica della sofferenza femminile, mostra che cos’è la partecipazione alle difficoltà altrui: è scontrandosi con quelle circostanze che non permettono una facile immedesimazione che si capisce che l’empatia è l’opposto di quello che talvolta siamo portati a provare.


È a Austin, nella Westoak Baptist Church, che Jamison partecipa a un raduno di pazienti con il morbo di Morgellons desiderosi di sentire legittimata sia la malattia sia loro stessi in quanto persone affette da una patologia dermatologica e non mentale. Le donne e gli uomini incontrati al raduno hanno in comune l’accusa di aver sviluppato il folie à deux, cioè quella sindrome psichiatrica nella quale un sintomo di psicosi viene trasmesso da un individuo all’altro. Jamison si domanda se la partecipazione alla conferenza di Austin potrebbe aver messo in atto la cosiddetta “malattia condivisa da due”. Per usare una distinzione cara a Susan Sontag – spesso citata nel libro – confrontarsi con persone che vivono completamente nel “regno dei malati” può far sì che chi è ancora in possesso della “doppia cittadinanza” abbandoni per sempre il “regno dei sani”. A tal riguardo Jamison si domanda: “Quand’è che l’empatia rinforza effettivamente il dolore che vuole consolare? Dare alle persone uno spazio per parlare della loro malattia – sondarla, osservarla, condividerla – le aiuta a superarla o semplicemente ad aumentare la sua presasu di loro? Un raduno come questo oltre conforto o, semplicemente, conferma la clausura e la prerogativa della sofferenza?”.

 

Se i pazienti con il morbo di Morgellons devono fare i conti con la diffidenza degli altri, le e i carcerati hanno a che fare con l’indifferenza e il giudizio altrui. È in un’ultramaratona nel Tennessee che Jamison incontra Charlie, giudicato colpevole di frode ipotecaria e condannato a ventuno mesi. Prima di andare a trovarlo al Federal Correctional Institution Beckley in West Virginia, i due hanno tenuto una corrispondenza epistolare. Ma è solo dopo aver mangiato junk food e parlato con Charlie dalle 8 alle 15 che Jamison realizza l’impossibilità di immedesimarsi nella condizione dell’amico; la loro differenza è qualcosa d’incolmabile: la libertà concessa da una parte e negata dall’altra. Infatti, se è vero che si tratta di un attraversamento verso uno stato diverso rispetto al proprio, è davvero possibile provare empatia nei confronti di una situazione di deumanizzazione? “Charlie mi racconta che ha smesso di chiedere agli amici di venire a trovarlo perché era troppo doloroso guardarli andare via. Vorrei che fossi qui, è solo un cerotto su. Vorrei essere lì. Vorrei che fossi qui non è mai abbastanza. Quando racconta come fa male quel momento della partenza, sappiamo entrambi di non essere esenti. Non importa quanto parliamo, o di cosa parliamo – non importa quanto bene Charlie descriva la prigione, o quanto bene io ascolti – la nostra visita  finirà.

Non vogliamo essere ferite (‘No, tu sei la ferita!’) ma ci dovrebbe essere permesso averle, parlare di averle, essere qualcosa di più di un’altra ragazza che ne ha una”. 

Ogni momento che trascorriamo insieme si muove verso questo orizzonte di partenza – come punto prospettico di un quadro, a cui tutto si riferisce. Confessarlo non serve a farlo svanire. Le 15 sono solo un’altra ora del giorno ma sono anche queste cose: la differenza tra me e Charlie, tra i nostri vestiti e le cene che mangeremo questa sera, tra il numero di persone che toccheremo la prossima settimana, tra quelle libertà che lo Stato ha ritenuto opportune per il suo corpo e per il mio. ”Un’empatia non sempre concessa è anche quella rivolta alle donne quando queste ultime diventano le rappresentanti della “sofferenza femminile”. Quella della donna ferita è un’immagine che è stata definita da modelli culturali che l’hanno resa tanto affascinante quanto limitante: “Fare troppo affidamento sull’immagine della donna ferita è riduttivo, ma lo è anche rifiutarla, non essere disposti a guardare alla varietà di bisogni e sofferenze che la generano. Non vogliamo essere ferite (‘No, tu sei la ferita!’) ma ci dovrebbe essere permesso averle, parlare di averle, essere qualcosa di più di un’altra ragazza che ne ha una”. Donne, detenuti, pazienti affetti da malattie non da tutti ritenute reali hanno un minimo comune denominatore: sono bersaglio di un esasperato giudizio sociale. Esami di empatia non dà e non vuole dare la definizione di “empatia”, ma permette di capire che, dopo aver riconosciuto il dolore delle altre persone e dopo averlo provato, è necessario sviluppare un pensiero rispetto a quel dolore. Ma il pensiero per essere valido deve portare con sé una complessità che i tempi attuali non sempre permettono; il pensiero per essere valido deve portare con sé un carico di dubbio che ora non è sempre permesso; il pensiero per essere valido deve poter uscire da schemi prestabiliti e dare spazio all’insicurezza e all’incertezza. La lettura di Esami di empatia lascia dunque aperta una domanda: è davvero concesso provare empatia verso tutte e tutti?