Society | Potere e narrazione

Il "silenzio" degli intellettuali

L'élite culturale del gruppo etnolinguistico altoatesino: dal servilismo nei confronti della minoranza dominante sudtirolese all'arroganza come risposta al dissenso
Note: This article is a community contribution and does not necessarily reflect the opinion of the salto.bz editorial team.
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Foto: Il caffè degli intellettuali di Mario Mafai

Il 24 settembre scorso chi scrive ha pubblicato su salto.bz l'articolo intitolato «Il "disagio" della discriminazione», ovvero «quando la manomissione dell’uso delle parole diventa funzionale alla manipolazione del linguaggio per la creazione d'una falsa rappresentazione della realtà».
Rimandando alla lettura dello stesso per i dettagli, le tesi espresse nell'articolo riguardavano in estrema sintesi l'utilizzo strumentale del termine «disagio», che è un "sintomo", al fine di occultare la "malattia", ovvero la «discriminazione», ad oggi, del gruppo etnolinguistico italiano in seguito all'applicazione dello Statuto di autonomia e con tanto di esempio concreto già illustrato in un altro articolo intitolato «Il falso mito della proporzionale».
L'articolo principale è stato commentato da un utente. La risposta ha costituito, di fatto, un pezzo autonomo. Di seguito sono riportati sia il commento dell'utente che la replica allo stesso. Alla fine, una nota esplicativa sul «"silenzio" degli intellettuali» che è insieme il titolo di questo articolo e la parte finale della risposta citata.

(commento di Liliana Turri a «Il "disagio" della discriminazione»)
Il titolo di questo articolo ha subito suscitato la mia curiosità dal momento che il tema è affrontato da me in più occasioni. Quello che solitamente si definisce disagio degli italiani, l'autore precisa essere in verità il sintomo di una malattia, la discriminazione, di cui soffre e ha sofferto la minoranza provinciale italiana con l’entrata in vigore del secondo statuto. Condivido, sia ben chiaro, l’opinione espressa dal nostro che, chiamare disagio quanto subito dai sudtirolesi a partire dall’annessione all’Italia, è a dir poco un eufemismo. C’è al presente un generale riconoscimento di questo. Manca invece una presa di coscienza del sintomo di discriminazione nel gruppo italiano in generale, soprattutto nel gruppo tedesco. Infatti a volte trovo insofferenza quando cerco di spiegare a conterranei di lingua tedesca le discriminazioni che subisce dagli anni 80 l’Italiano e che trovo ben espresse nell’articolo citato. Per quarant’anni e più il partito al governo si è impegnato ad eliminare, a compensare la discriminazione subita dai sudtirolesi. Peccato che la lungimiranza – semmai c’è stata – non si sia rivelata sufficiente perché questo impegno ha prodotto (intenzionalmente? Spero di no.) quella discriminazione nel gruppo italiano che appunto fatica ad essere riconosciuta.
Una commissione di sociologi tedeschi e italiani super partes dovrebbe a mio parere controllare che il pendolo si fermi al centro. La narrazione istituzionale di un’autonomia “à la Mulino Bianco” facilita l’accettazione di discriminazioni per le quali invece urge una soluzione.

questo impegno ha prodotto (intenzionalmente? Spero di no.) quella discriminazione nel gruppo italiano che appunto fatica ad essere riconosciuta.

(risposta dell'autore)
Il commento è pieno di spunti, quindi comincerò prendendo quello che per me è il principale: vale a dire, sull’intenzionalità o meno della discriminazione del gruppo etnolinguistico italiano.
In primis va fatta una precisazione: un conto è il gruppo etnolinguistico sudtirolese, altra questione è la sua classe dirigente. Lo Statuto di autonomia entrato in vigore nel 1972 non è stato scritto dal popolo sudtirolese ma dalla sua èlite, ovvero una ben identificata minoranza di persone in possesso di autorità, potere e influenza sociale e politica. E non solo non è ipotizzabile ma non è nemmeno pensabile che questa èlite non abbia valutato e poi scelto deliberatamente una configurazione normativa che avesse tra gli obbiettivi anche quello di sopraffare il gruppo etnolinguistico antagonista.
C’è una interessante intervista, realizzata da Luise Malfertheiner pubblicata ne l’Adige il 6 giugno 2022, a Martha Ebner, nipote centenaria e lucidissima del Kanonikus Michael Gamper e madre dei fratelli Ebner del gruppo Athesia. Ad un certo punto l'intervistatrice chiede: «Poi, con il 1972 e lo statuto d’autonomia le cose sono cambiate. I sudtirolesi l’hanno compreso?». La risposta non lascia spazio a dubbi: «La maggior parte delle persone ha capito che erano iniziati tempi diversi. Eravamo tornati padroni nel nostro territorio». Ecco i termini chiave: «tornati padroni».

l'intervistatrice chiede: «Poi, con il 1972 e lo statuto d’autonomia le cose sono cambiate. I sudtirolesi l’hanno compreso?». La risposta non lascia spazio a dubbi: «La maggior parte delle persone ha capito che erano iniziati tempi diversi. Eravamo tornati padroni nel nostro territorio»

L’Alto Adige/Südtirol è composto - escludo la minoranza ladina solo perché nel prosieguo del ragionamento è irrilevante – da una minoranza etnolinguistica territoriale che corrisponde a quella nazionale e da una minoranza etnolinguistica nazionale che qui è maggioranza. In qualsiasi situazione analoga, se ad un gruppo etnolinguistico di minoranza nazionale ma maggioranza territoriale viene data la possibilità di disegnare in proprio un assetto giuridico che comprenda la più ampia autonomia possibile, con una storia alle spalle come l’annessione del 1919, dal 1922 in poi seguita da 21 anni di oppressione mussoliniana e 2 di fascinazione hitleriana, un accordo di pace che lascia il Südtirol all’Italia e nel giro di meno di dieci anni la ricostruzione di una èlite con una rilevante percentuale di ex nazisti locali, il risultato non può che essere uno e uno soltanto. Non solo la definizione più recente di etnia si basa, più che su una comune sostanza, sul fatto che gli appartenenti a un gruppo etnico si riconoscerebbero in quanto tali proprio perché condividerebbero una contrapposizione versus l’altro o gli altri gruppi etnici concorrenti, ma tutta la letteratura sulla questione valuta da sempre la competizione per l’accesso alle risorse di un gruppo riconosciuto a danno di un altro come uno dei fondamenti delle dinamiche sociali.

la competizione per l’accesso alle risorse di un gruppo riconosciuto a danno di un altro come uno dei fondamenti delle dinamiche sociali

C’è un altro fenomeno, però, di cui vorrei parlare cogliendo l’occasione che mi dà il rispondere a questo commento: ed è – salvo tanto pochi quanto meritevoli casi – l’assoluta acquiescenza quando non il vero e proprio servilismo di una gran parte dell’èlite “intellettuale” del gruppo etnolinguistico italiano nei confronti di quello tedesco riguardo allo Statuto di autonomia. C’è addirittura stato un giornalista – Florian Kronbichler – che ha appositamente coniato il termine «das Romano Viola Syndrom» (la sindrome Romano Viola, dal nome del politico locale) per designare gli altoatesini che tessono le lodi di un’autonomia non sapendo o, peggio, fingendo di non vedere quello che in realtà è e che magari voterebbero o inviterebbero a votare un partito, la SVP, nel quale per suo statuto non si potrebbero nemmeno candidare in quanto appartenenti al gruppo etnolinguistico italiano.
È soprattutto a causa di queste persone se gli altoatesini non hanno mai sviluppato una propria fondata lettura critica dell’autonomia.
Ed è sempre a causa loro se questi ultimi cadono sempre più tra le braccia di demagoghi di destra che, dopo averli aizzati allo scopo, non fanno altro che usarli per il proprio tornaconto elettorale.

«Il "silenzio" degli intellettuali»
Gli intellettuali hanno una responsabilità che si potrebbe definire come assoluta. In uno dei suoi libri più famosi Noam Chomsky scrive che «Coloro ai quali viene riconosciuto tale titolo [di intellettuali, NdA] possiedono un certo grado di privilegio conferito da questo status, con opportunità fuori dal comune. Ma alle opportunità si accompagnano le responsabilità che, a loro volta, impongono delle scelte, talvolta difficili. Si può scegliere di percorrere la strada dell’integrità, ovunque essa conduca. Oppure si possono mettere da parte simili preoccupazioni e accettare passivamente gli schemi stabiliti dalle strutture dell’autorità. In quest’ultimo caso, la propria missione sarà quella di seguire puntualmente le istruzioni di chi ha in mano le redini del potere ed essere servi leali e fedeli, non dopo una riflessione ponderata ma per un riflesso condizionato di conformismo. È un modo sicuro per sottrarsi alle difficoltà morali e intellettuali derivanti dall'esercizio della critica e per evitare le conseguenze dolorose che possono arrivare quando si cerca di tendere l’arco morale dell’universo verso la giustizia».
Nella risposta al commento riportata sopra, chi scrive ha evidenziato come ci sia un «fenomeno» che «è – salvo tanto pochi quanto meritevoli casi – l’assoluta acquiescenza quando non il vero e proprio servilismo di una gran parte dell’èlite “intellettuale” del gruppo etnolinguistico italiano nei confronti di quello tedesco riguardo allo Statuto di autonomia» e come ciò abbia portato sostanzialmente al mancato sviluppo di una lettura fondatamente critica dell'autonomia da parte del gruppo etnolinguistico italiano e al suo abbraccio mortale con i demagoghi populisti di destra.
Al citato servilismo, da Noam Chomsky ricondotto inequivocabilmente ad un «accettare passivamente gli schemi stabiliti dalle strutture dell'autorità» trasformandosi in «servi leali e fedeli» (che già basterebbe e soverchierebbe) si aggiunge il fenomeno della repressione del dissenso: dove detti intellettuali, smessi i panni dei cantori all'unisono della bontà dell'autonomia rivestono senza alcuna remora quelli dei bravi di manzoniana memoria proclamando con voce solenne a chi si permetta di dubitarne che «questa critica non s'ha da fare, né domani, né mai».

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