Vukovar 30 anni dopo
Mentre tutta Italia ha celebrato il ricordo di Dante Alighieri, padre della lingua e della cultura italiana, nonché uno dei simboli del Belpaese nel mondo, di cui quest’anno ricorre il 700º anniversario dalla morte, ad altre latitudini i riferimenti storico-culturali fondativi di un’identità nazionale sono diversi. Così, a breve, la Croazia ricorderà i 30 anni della caduta della città di Vukovar – primo assedio di una città europea dopo la Seconda guerra mondiale che fece capire al mondo che era cominciata la guerra in ex-Jugoslavia– diventata il simbolo del Domovinski Rat, la guerra patriottica, come è chiamata ufficialmente la guerra degli anni Novanta in Croazia.
Vukovar e il suo assedio
Vukovar, il più grande porto croato sul Danubio, fiume che la separa dalla Serbia, è da sempre una realtà multietnica, in cui la convivenza tra serbi e croati era dovuta, oltre che a evidenti motivi geografici, all’importante sviluppo industriale e socioeconomico della città. L’assedio di Vukovar, cominciato il 25 agosto del 1991, fu il culmine della campagna di conquista territoriale serba in Slavonia e nelle Krajne. In una Jugoslavia allo stadio terminale, indebolita da una grave crisi economica e valoriale dopo la morte di Tito, riemersero i nazionalismi, i conflitti per l’accaparramento e la spartizione delle risorse (ex)jugoslave e le rivendicazioni territoriali per lo spazio vitale, spinte disgregative messe a tacere per lungo tempo, subordinate all’ideale di “Fratellanza e Unità”, sintagma fondativo della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia, di cui Josip Broz “Tito” era l’icona e il garante.
Mentre la dichiarazione di indipendenza slovena del giugno del 1991 provocò poche reazioni da parte dei centralizzatori gran-serbi coagulati intorno alla figura di Slobodan Milosević, grazie anche all’omogeneità culturale-nazionale del territorio, su cui gli scontri armati si conclusero nel giro di dieci giorni, l’indipendenza croata – con la promulgazione di una nuova Costituzione che declassava i serbi di Croazia da popolo costitutivo a minoranza nazionale e che giustificava in maniera problematica la legittimità della indipendenza croata facendo inquietanti riferimenti al periodo del collaborazionismo nazi-fascista dello Stato Indipendente (fantoccio) di Croazia – provocò aspre contrapposizioni, che culminarono nell’occupazione militare serba di circa un terzo del territorio della Croazia e nell’assedio della città di Vukovar.
L’Armata Popolare Jugoslava, i cui vertici erano ormai completamente serbizzati, con l’ausilio di gruppi paramilitari riconducibili al Ministero dell’Interno della Serbia e con un’operazione di armamento e militarizzazione dei civili serbi delle Krajine – territori storicamente abitati da popolazioni serbo-ortodosse – ebbero come obiettivo quello di riunificare le zone a maggior densità serba, per realizzare poi, sulle ceneri della Jugoslavia, il disegno Ottocentesco della Grande Serbia. L’alibi mediatico alla base delle operazioni della JNA (l’Armata Popolare Jugoslava) fu quello di salvare le popolazioni dagli ustaša – i fascisti croati – confermando, in sostanza, che le matrici del conflitto degli anni Novanta affondano nella storia, mai rielaborata, della Seconda guerra mondiale.
Le rivendicazioni dei territori della Slavonia e delle Krajine croate furono violente e sanguinose. Dopo una campagna di pulizia etnica con incendio dei villaggi croati, espulsione e deportazione dei non-serbi con commissione di atrocità contro i civili e crimini contro l’umanità, l’apice fu l’assedio di Vukovar, durato 87 giorni. Accerchiata a partire da fine agosto del 1991, la città fu completamente rasa al suolo e distrutta nel giro di tre mesi, fino a quando non cadde, il 18 novembre dello stesso anno. Simboli di un passato atroce ed ingombrante – quello degli anni Novanta – sono oggi il Memoriale dell’ospedale di Vukovar, luogo in cui molti civili trovarono rifugio, nonostante i continui bombardamenti, e da cui furono rastrellate e deportate alla Ovčara, alla caduta della città, 267 persone. Successivamente torturate e gettate in una fossa comune, nei pressi della quale oggi sorge un memoriale a loro dedicato, furono le vittime del più grande massacro commesso dai serbi durante la guerra in Croazia. Altro simbolo della battaglia di Vukovar è la sua Torre dell’acqua, che svetta sulla città portando ancora i segni dei numerosi bombardamenti subiti, ma soprattutto che tiene sempre alta, sulla cima, la bandiera nazionale, la Šahovnica (Scacchiera bianco-rossa), bersaglio dell’esercito jugoslavo e dei paramilitari serbi – četnici – durante l’assedio.
Fu un cessate il fuoco delle Nazioni Unite, nel 1992, a placare le ostilità tra l’armata jugoslava e i croati e a riconoscere ufficialmente la Repubblica di Croazia. Fino alle operazioni militari Lampo e Tempesta della primavera e estate 1995, il conflitto tra le due parti fu a bassa intensità. Le due imponenti operazioni militari svolte dall’esercito croato, agite con lo scopo di riconquistare i territori sotto controllo serbo furono devastanti e portarono alla distruzione di interi villaggi, alla morte e allo sfollamento di numerosi civili, prevalentemente serbi. Nell’immaginario collettivo croato sono ricordate e celebrate come grandi guerre di liberazione e vittorie, avendo eliminato completamente l’autoproclamata Repubblica delle Krajine Serbe e, di conseguenza, riconquistato i territori.
Dopo l'assedio
La Croazia decide dunque di raccontarsi a partire da Vukovar, architrave della costruzione della nuova matrice culturale croata, che con la sua comunità porta il peso della narrazione nazionale più sentita dello Stato. Una ricorrenza importante, tanto da diventare, a partire dall’anno scorso, festa nazionale – affiancandosi, di fatto, alla festa dell’Indipendenza croata dalla Jugoslavia che si celebra l’8 ottobre. Tutta la Croazia si riunisce quindi il 18 novembre per ricordare i caduti di Vukovar, la città martire, e le atrocità subite: file di politici e cittadini comuni che vanno in pellegrinaggio o commemorano nelle proprie città i dolori vissuti dal popolo, ricoprendo le strade di candele e stringendosi sotto le bandiere, per sentirsi quanto più croati possibile. Nonostante ciò, a trent’anni dall’accaduto sono ancora molti i fattori di narrazione che non convincono, soprattutto per via del racconto celebrativo – che fa da contraltare a quello dell’assedio – delle operazioni Lampo e Tempesta, ricordate con grande orgoglio come miti fondativi da media, politici, istituzioni e cittadini comuni.
In questo contesto si inserisce, a Vukovar, una realtà come Europe House – Evropski Dom Vukovar (EDVU) la quale, tra i diversi obiettivi, tenta di uscire dal racconto esclusivamente vittimistico dell’assedio per riconciliare, attraverso un dialogo pacifico – all’interno della città e sul territorio ex-jugoslavo – storie, memorie e rapporti tra le parti coinvolte nella guerra degli anni Novanta.
Con la firma dell’Accordo di Erdut – da parte del primo ministro croato e di un rappresentante dell’autoproclamata Repubblica delle Kraijne Serbe – nel novembre del 1995 si decise che la regione di Vukovar (l’ultima in territorio croato controllato dai serbi) sarebbe stata amministrata dall’ONU per un periodo di transizione, prima di tornare sotto l’amministrazione croata nel 1998.
Da allora molti serbi sono tornati a ripopolare la città e da allora Vukovar cerca di fare i conti con il suo passato. In questo ha un ruolo fondamentale l’associazione EDVU, nata vent’anni fa con l’intento primario di rinnovare e rivitalizzare la frammentata comunità post-bellica della città, promuovendo la comprensione e lo sviluppo di uno spirito di tolleranza fra cittadini serbi e croati, appartenenti a differenti gruppi religiosi e politici, in un clima di mutua fiducia. Il processo di pace con cui la città è stata riassegnata all’amministrazione croata sta perdendo, tuttavia, l’occasione di diventare un modello di mediazione positiva esportabile in altri contesti simili, soprattutto perché fatica a trovare posto nella narrazione storica e nell’identità locale e nazionale, fagocitato dalla storia madre della tragedia nazionale dell’assedio.
Così, il lavoro che EDVU svolge sul territorio – coinvolgendo tutti gli strati della società, a partire dai bambini – viene incanalato in una nuova e diversa percezione di quello che la città è e ha da offrire, con l’obiettivo che siano gli abitanti stessi da una parte e la comunità internazionale dall’altra a raccontare Vukovar al di là del suo assedio. Varie le attività offerte dall’associazione che vanno in questa direzione. A partire dall’informazione dei cittadini rispetto agli attuali sviluppi nel campo delle scienze, della cultura e della politica, per i quali sono organizzate conferenze tematiche che affrontano diversi argomenti.
«Si creano, in questo modo – spiegano Dijana Antunović Lazić e Aleksandar Kojić, coordinatori delle attività sociali di EDVU – opportunità per contatti tra i cittadini, con lo scopo di facilitare il superamento del pregiudizio, favorendo la cooperazione tra comunità religiose e con istituzioni estere».
Grande attenzione è dedicata ai bambini e ai giovani, a cui sono rivolti progetti educativi, formali e informali – come, ad esempio, Youth United in Peace o Summer Peaceful Camp – in cui possono condividere i loro ricordi (diretti o indiretti) legati alla guerra, scoprire la propria e le culture altrui, in un clima di dialogo e comprensione reciproca nel tentativo di decostruire gli stereotipi che possono derivare dalle singole memorie familiari. Sono infatti soprattutto i giovani – in particolare quelli nati dopo gli anni Duemila, che non hanno avuto esperienza diretta del conflitto – a ricevere un racconto di parte, che spesso li conduce ad assumere una posizione radicalizzata rispetto ai fatti accaduti e a subire, di fatto, le conseguenze di una narrazione con troppe discrepanze e che porta con sé questioni irrisolte e aperte.
Dealing with the past
Benché quello della ricostruzione di una più equilibrata esposizione del conflitto sia un terreno problematico e scivoloso in cui inserirsi – poiché l’attuale narrazione identitaria croata si basa sulla storia dell’assedio della città di Vukovar e sul racconto trionfante delle operazioni Lampo e Tempesta, spingendo su un sentimento nazionale prima di popolo martire e poi di popolo vincente e liberato – Europe House Vukovar non è l’unica realtà ad occuparsene. A Zagabria, Documenta è un centro che si occupa di dealing with the past, ovvero di analisi (critica) del passato. E’ un tentativo di incoraggiare lo sviluppo di un processo che si occupi del passato cercando di fissare una verità fattuale rispetto alla guerra, per contribuire a spostare il dibattito dal livello di disputa riguardo ai fatti – come, ad esempio, il numero delle vittime – verso un dialogo rispetto alle interpretazioni del conflitto stesso e, di conseguenza, delle narrazioni che da queste derivano. Fondata nel 2004, Documenta affonda le sue radici nell’attivismo della campagna antiguerra nata durante l’estate del 1991 da una segmento di società civile croata fortemente contraria al nazionalismo e che nel corso del conflitto si è impegnata a favore della promozione e della tutela dei diritti umani e delle vittime di guerra. La fiamma che ha acceso Documenta è stato il silenzio e la falsificazione intorno ai crimini di guerra nel periodo dal 1941 al 2000 – questione che ha influenzato il passato recente della Jugoslavia e, in generale, le società post-jugoslave. Dalla sua fondazione, dunque, il centro contribuisce al potenziamento del processo individuale e sociale di dealing with the past affinché si arrivi alla creazione di una pace duratura e sostenibile a livello nazionale.
«Approfondendo il dialogo ed innescando un dibattito pubblico sulle questioni collettive che incoraggino un faccia a faccia col passato – chiarisce Tena Banjeglav, storica di Documenta – raccogliamo dati, pubblichiamo ricerche storiche riguardo il conflitto e i suoi crimini e in merito alle violazioni dei diritti umani».
In questo senso è fondamentale l’attività di monitoraggio dei processi penali sui crimini di guerra a livello locale e regionale, per contribuire al miglioramento delle procedure delle corti nei processi per i crimini di guerra. «Si tratta di una realtà che ha intessuto col passare degli anni una forte rete di collaborazioni con organizzazioni istituzionali nazionali ed internazionali e con ONG, ma la cui attività fatica ancora ad emergere e fare presa nella società», conclude Alice Straniero, collaboratrice del centro.
Fatto che non stupisce in un contesto come quello della capitale croata, dove i diversi strati della narrazione storico-identitaria li abbiamo ritrovati nella sua stratificazione urbana. Se attraversandola e percorrendola si ha l’impressione di visitare una normale città europea – con un’ineludibile e affascinante aria austro-slava – nei tunnel sotterranei della città, così come nelle cantine delle case, è presente ancora la memoria e la storia – congelata – di una capitale che ha dovuto fare i conti con la guerra. Zagabria ha selezionato – in modo più o meno consapevole – i simboli e le narrazioni che vuole ricordare, tralasciando ciò di cui, nella storia croata, non conviene avere memoria. Oltre ai tunnel che proteggevano i civili sia durante la Seconda guerra mondiale, sia nel corso del conflitto degli anni Novanta – che adesso gli zagabresi addobbano durante il periodo natalizio, come a voler dimenticarne l’uso – ci sono i simboli di una parentesi più scura con cui i croati non si sono ancora del tutto confrontati: quella degli ustaša. Movimento nazi-fascista croato fondato nel 1929 il cui leader, Ante Pavelić, Führer dello Stato indipendente di Croazia – in realtà stato fantoccio di nazisti e fascisti – durante la Seconda guerra mondiale, adottò una feroce politica razziale di sterminio contro serbi-ortodossi, rom, ebrei, comunisti e dissidenti politici, al fine di creare uno stato croato-cattolico etnicamente puro. Centinaia di migliaia furono le persone uccise nei campi di concentramento; il più grande complesso concentrazionario fu quello di Jasenovac, noto per le brutali modalità di sterminio dei deportati. Insieme alla deportazione della comunità ebraica zagabrese, nel 1941 venne distrutta la sua sinagoga. Mai più ricostruita, al suo posto sorge oggi un parcheggio e a ricordarla rimane soltanto una targa. Che fine ha fatto e che spazio ha, la memoria della comunità ebraica di Zagabria, all’interno della propria città? E che rapporto ha la nuova identità croata con la memoria del periodo ustaša, con i cui simboli si “gioca” a livello pubblico ammiccando all’inversione dei colori delle due bandiere (scacchiere) nazionali?
Come si costruisce l’identità di una nazione? Su quali elementi simbolici e narrativi?
Gli stati dell’ex-Jugoslavia, e in particolare la Croazia, sono esempi emblematici in cui questo processo è ancora in atto. La sovrapposizione di strati di memoria, come nel caso croato, complica notevolmente la situazione. Trovandosi a far parte, agli inizi del Novecento, del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni – diventato in seguito Regno di Jugoslavia – passato poi allo Stato Indipendente di Croazia a guida ustaša, per giungere alla Federazione Socialista Jugoslava e, infine, al periodo post-jugoslavo di Tuđman, i capitoli della storia croata sono depositati l’uno sopra l’altro senza essere stati né chiusi né metabolizzati. Questo meccanismo si ritrova, ad esempio, nello scontro fra ustaša e četnici – rispettivamente nazi-fascisti croati e monarchici nazionalisti serbi – che dalla Seconda guerra mondiale si è trascinato questioni irrisolte rivangate durante la guerra degli anni Novanta. Altra questione scomoda della recente storia croata riguarda il tema dei crimini di guerra e contro l’umanità durante le operazioni militari del 1995, risolte con un tecnicismo dal Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra in ex-Jugoslavia nel processo contro i generali Gotovina, Markač e Čermak che comandavano l’esercito croato. Operazioni che hanno provocato l’espulsione di oltre 200.000 serbi dalle Krajine e la morte di diverse centinaia di persone, tra cui molti civili.
È necessario, in questo contesto, avviare un’analisi critica della storia della nazione, il più distaccata possibile dalla strumentalizzazione politica e ideologica, poiché esitare a fare i conti con il proprio passato è un conto che pagheranno le generazioni future. Per questo, partendo dalla cultura e dalla formazione scolastica, sarebbe auspicabile investire sulla formazione di un pensiero critico, capace di riconoscere le contraddizioni storiche e le costruzioni mito-identitarie delle nuove matrici culturali nate dalle guerre degli anni Novanta. In tutta la ex-Jugoslavia si potrebbe cominciare proprio dal conflitto degli anni Novanta, andando a mettere sotto stress le questioni cruciali dell’impostazione storiografica di ciascun paese riguardo alle vicende, da analizzare criticamente, ammettendo crimini e violenze commesse e subite. Esiste però la consapevolezza e la volontà di farlo? E di condividere poi, in tutta onestà e vicendevolmente, il risultato di un lavoro complesso e minuzioso come può essere questo? La nazione, in fin dei conti, è un costrutto storico-sociale, fortunatamente – ancora e sempre – malleabile. La creazione di un’identità si gioca su diversi piani e profondità, che possono essere l’identificazione nei valori comuni oppure, per contrasto, l’identificazione in qualcosa diverso dal sé, da tenere lontano.
Così, mentre l’Italia celebra i racconti di Dante, padre della lingua, riconoscendosi nella sua produzione letteraria e culturale, la Croazia ricorda la sua storia madre, l’assedio di Vukovar, riconoscendosi nella tragedia e dimenticandosi – come accade spesso – che l’identità è una costruzione fluida, una tessitura varia di socializzazione e relazioni con l’altro, che alla fine così lontano non è.
Ultima Fermata Srebrenica
Ultima Fermata Srebrenica è uno dei progetti di cittadinanza promossi da Arci e Arciragazzi Bolzano, che da anni – insieme a Campi della Legalità e Promemoria Auschwitz.eu – accompagnano i ragazzi ad esplorare realtà complesse e cariche di spunti per lo sviluppo di un pensiero critico, con l’obiettivo che diventino cittadini attivi e consapevoli. Ultima fermata Srebrenica prevede solitamente un viaggio di formazione in Bosnia-Erzegovina, scenario duramente colpito dalla guerra degli anni Novanta, durante il quale la storia dei luoghi viene raccontata dai protagonisti stessi. I partecipanti vengono immersi in contesti mobili e ancora pulsanti e portati a confrontarsi con il genocidio di Srebrenica, il primo avvenuto sul suolo europeo dopo la Seconda guerra mondiale. L’edizione 2021 del viaggio è stata rimodulata per motivi legati alla situazione pandemica. Le tappe – Ljubljana, Zagabria e Vukovar – hanno permesso di approfondire un altro lato e contesto del conflitto, aprendo ampi spazi di ragionamento e dibattito tra i formatori e i partecipanti.