Culture | Viaggi & ricordi

A Durazzo con gli occhi dei bolzanini

Noi durazziani siamo abitudinari. Abbiamo il nostro macellaio di fiducia, la nostra parrucchiera, la nostra zona preferita sulla spiaggia in cui infilare l'ombrellone.
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Durazzo - Vollga.jpg
Foto: Google image

L'anno scorso, una mia cara amica, l'attrice Mara da Roit, mi aveva telefonato per farmi sapere che tra pochi mesi sarebbe andata a visitare l'Albania. È stato tre o quattro mesi prima del mio rientro estivo a Durazzo. Successivamente mi aveva chiesto delle informazioni: località tipiche, luoghi storici e trattorie particolari; le classiche delle domande a cui reagisco fissando il mittente un paio di secondi stordita, oppure muta con bocca semiaperta. Sono inadeguata per potermi mettere nelle vesti di una guida (benché umile) turistica. Quel giorno ho tolto il cellulare dall'orecchio e ho fissato il soffitto. Poi l'ho riafferrato e subito le ho suggerito di dormire almeno una notte a Durazzo. Per quanto riguardava i posti da vedere, sicuramente le avrei consigliato quelli in cui ho trascorso la mia infanzia impasticciata di fango e di fili d'erba in cerca di avventure alla Verne con il cuore a pezzi per la cattiva sorte del ragazzo Copperfield. Il campo sterrato dietro il nostro palazzo dove tentavamo di gorgheggiare con parole nostre la Campanera del nostro caro compagno Joselito:

"Por qué ha pintao sus ojeras/ la flor de lirio real..." 

La villa color rosa del Re sulla collina dei pini, la gelateria remota dei fratelli Bllaca impero delle “kasate” squisite, le rovine romane e i sotterranei dell'anfiteatro in cui trastullandoci tra i nascondigli temevamo gli spiriti degli avi. Senza escludere poi i forni comuni del quartiere, la fila lunga di domenica mattina di donne con grembiuli e uomini sudati con delle teglie larghe in mano, ora con pollo e patate, ora con pezzi di merluzzo e quant'altro. I vicoli selciati da cui attraversando in ciabatte la piazza Liria in pochi minuti ragiungevamo la spiaggia, oppure appena fuori città, varcando i binari della ferrovia sulle alture di alghe nei costume da bagno tanto improvvisati quanto indecenti.

Posti se non del tutto spariti, in più dei casi abbandonati. In quegli anni Durazzo era questo. Andare poi di sabato pomeriggio a passeggio con i genitori verso la trattoria Volga, sulla riva al mare, una specie di isola fiorita socchiusa tra palme e canneti al riparo dai palazzi ricoperto di muschio dei pescatori. Oltrepassando il recinto di oleandri ci si trovava inabissati in un baccano di colori roventi e movimenti convulsi, tutto pareva che si spostasse da sinistra a destra, su e giù, come in una minestra di verdure in una pentola gigante. Le palme nane e robuste con foglie lunghe e larghe, i piccoli tavoli quadrati con attorno delle andanti sedie di legno, le labbra della tizia e il naso del tizio, gli odori delle patatine fritte in padella, delle bistecche al sangue, delle polpettine di vitello e delle triglie croccanti. All'angolo in fondo a sinistra si mettevano i ragazzi dell'orchestra. Suonavano fino a tardi e tra loro c'era chi portava baffi lunghi fino alle orecchie, chi delle camicie strette con disegni a fiori larghi e colorati. In centro, sulla gramigna calpestata, ballavano delle coppie, invece noi andavamo in cerca di lucciole portate dall'aria marina. A volte si spostavano tutte assieme, plasmando sui canneti un fumo fatato di puntini di luce. Questo fino agli anni Ottanta. Poi, qualcuno ha deciso di imporre le sue impronte abbattendo tutto e cementificando un bel pezzo della costa. Laddove giaceva la vecchia trattoria, oggi si erge una piramide più larga che alta con in cima la statua nera di un uomo armato. Il Soldato Ignoto. Tiene il fucile con le braccia alzate e piegato lievemente in avanti punta la canna verso un punto impreciso tra l'orizzonte e il mare.

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A Mara non ho fatto cenno a niente di tutto ciò. Al suo ritorno mi aveva inviato delle foto. Una la ritraeva mezza seduta sulla muraglia che costeggiava il mare pochi metri piu in là del molo, appena di fronte a casa mia. Dietro si distendeva il blu profondo dell'Adriatico e una larga macchia rosea solare che man mano s'inzuppava nella notte che si approssimava. “Qui la magia del lungomare nei colori caldi e soffusi del tramonto...”, ha scritto sotto la foto. L'altra, in piazza Liria, di fronte alla prefettura. Questa era la piazza nuova contrastata dalla maggioranza dei cittadini, affezionati a quella precedente. Un parco quadrato con dei fiori, sopratutto delle violette. In mezzo s'innalzava una fontana risalente al 1930. Lì di fianco, in prossimità del teatro comunale c'era un cortile con qualche albero robusto, panche di legno con delle spalliere, in cui in estate gli anziani si sedevano e giocavano a carte. Ogni tanto a partire dalla primavera e poi in estate sostava una giostra e sull'erba oziavano numerose famiglie di rom. Questa nuova aveva delle palme alte e magre, piccoli fori da cui uscivano stillicidi di acqua, mini fontane irrisorie, panche rettangolari di cemento, scottanti sotto il sole. La vecchia fontana era stata sradicata e una bella parte dei cittadini anziani era rimasta profondamente amareggiata. Mara si era messa sulla piazza in piedi e sorridente, dietro ad una panca su cui si erano sedute, vestite in abiti scuri, sei donne anziane.

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"Dopo Scutari è Durazzo la citta che ho più gradito", mi ha confessato Gabriele Muscolino dopo il loro ritorno. Professore di lingua e letteratura italiana in un liceo classico tedesco a Bolzano, è sopratutto musicista, il cantautore di Nachtcafe, un ottimo gruppo folk che si esibisce dentro e fuori l'Alto Adige e spesso anche all'estero. Hanno al loro attivo due album graziosi e molto ben curati. Con la sua compagna avevano intrapreso con comodo un viaggio di due settimane, sostando tra l'altro un giorno a Durazzo, all'Hotel Nice. Conoscevo l'Hotel Nice. Quest'anno una donna che abitava nello stesso edificio, al terzo piano, verso il pomeriggio era uscita sul poggiolo con un tubo di plastica in mano proveniente dal rubinetto della cucina. Lo aveva strisciato fino a sopra il davanzale e si era data da fare ad annaffiare i fiori del piano terra. Lì sotto, su una sedia sul ciglio della viale, si sedeva dal mattino alla sera Dante, il signore del negozietto di opere artigianali, piccoli regali da portare con sè. “Una persona loquace, simpatica e semplice”, mi dice Gabriele. Di sera avevano deciso di cenare ad uno dei ristoranti in cui spesso e volentieri vado a prendere il caffè del mattino con la mia amica Renata. Da Gogo. Di sfuggita avevano intravisto l'anfiteatro. L'Hotel Nice dista pochi minuti dal mare e ha alla sua destra la Casa Museo di Alessandro Moissi, casa in cui passo la sua infanzia il grande attore albanese, naturalizzato austriaco, la foto del quale ho trovata tra le altre personalità che decoravano le pareti interne del teatro comunale di Bolzano. Un po' piu a destra serpeggia la strada Colonnello Thomson, in ricordo di Lodewijk Willem Johan Karel Thomson, un infelice colonnello olandese, inviato in Albania nel 1913 per conto di Germania, Francia, Italia e Russia a sopprimere delle ribellioni di contadini albanesi contro il principe Vidi. La sua morte a Durazzo, avvenuta il 15 giugno del 1914, è rimasta un mistero. Si racconta che nel bel mezzo di una rivolta, mentre dava degli ordini ai suoi soldati, fu colpito da una pallottola a distanza ravvicinata. Gli si era infilata da dietro il collo fuoriuscendo dalla gola. Comunque la strada del sventurato Colonnello Thomson si snoda parallelamente a quella di Anastas Durrsaku, Anastasio I di Durazzo, imperatore del Bisanzio dal 491 al 518. Nato a Durazzo, nel 430, gli viene attribuita la famosa tassa “pro haustu aeris”, la tassa “dell'aria che respiriamo”. Purtroppo non mi è chiaro se e come funzionano le guide turistiche a Durazzo, perché spesso mi sono imbattuta in gruppi di turisti che si arrangiavano da soli tra vicoli sparuti con delle mappe improvvisate tra le mani e capellini storti sulla testa.

Tornando a Gabriele, al pomeriggio, mentre prendevano un caffè sulla riva, si era sentito il canto del muezzin, il richiamo alla preghiera:

“La sensazione era insolita – mi ha detto - anzi nuova per me. Un senso di unità, forse armonia, la sensazione della ricucitura di uno strappo, lo strappo tra la carne e lo spirito, tra materia e anima. Bere, mangiare, trafficare o qualsiasi altra attività esplicita e implicita e nel frattempo la presenza della parola divina che vi si sovrappone - sacro e profano stanno insieme, (…) la recita di un versetto sacro è ben altra cosa rispetto al suono delle campane - la prima è un atto di comunicazione all'uomo, la seconda è un rinvio a qualcos'altro”.

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  Quando siamo arrivati noi i ragazzi erano già partiti verso Valona. Arrivati sulla piazza del porto siamo rimasti paralizzati. In mezzo l'asfalto era apparso lacerato. Un grande buco nero, come il ventre di una donna martoriata. Da sotto si vedevano a malapena i resti della vecchia città, Dyrrachium, risvegliata dopo mille anni. Qualcuno raccontava di tre tombe di Medioevo, tombe di donne, di residui archeologici murali, reliquie ottomane. Lo stesso pomeriggio mi sono unita alla protesta isolata di una parte della società civile che chiedeva la sospensione immediata dei lavori. L'altra parte, la maggioranza, si gingillava lungo il viale Epidamnus, oppure ai tavoli dei bar, sorseggiando una qualche bevanda, oppure gustando il gelato. Le due settimane sono volate, ma mi sentivo come intrappolata in un corpo malato. Uno di quei giorni sono andata a visitare piazza Liria, dove aveva posato Mara tra le palme, di fronte alla prefettura. Volevo trovare le sei donne vestite di scuro. Sapevo che le nostre madri sono abitudinarie. Si siedono allo stesso posto per un preciso tratto di tempo. Così anche gli uomini, alla sinistra, sulle scale della grande moschea. Ognuno al suo posto, dalle 15 fino alle 16, dalle 18 fino alle 20 e cosi via. Le ho trovate alle 18 di sera, ovviamente sulla stessa panca di cemento. Ci siamo salutate e abbiamo chiacchierato un po'.

Poi le ho raccontato di Mara e della sua foto. “Siamo diventate famose!”- si era divertita la donna più anziana con degli  occhiali da sole neri. “Ringrazi da parte nostra la signora Mara, la prego!”- si rallegrava l'altra. Se ne sono andate verso il tramonto, quando un nonno ricciuto si è piazzato con delle pannocchie di mais e una stufetta. Aveva sbucciato le pannocchie in un battito di ciglia e le aveva disposte sul fuoco una vicina all'altra, cinque per volta, girandole con destrezza di tanto in tanto. Questo aveva dato origine ad un fumo accecante che avvolgeva tutto, perfino le palme fino a metà della loro lunghezza. 50 centesimi a pannocchia. Troppo per gli anziani albanesi che ne percepiscono circa 150 di pensione.

Dopo di noi c'era stata la mia carissima amica, Monika Pietrangeli, la giornalista del TGR Alto Adige. Era con le sue amiche e dopo la mia partenza le ho lasciato le chiavi di casa, al quinto piano. Era rimasta affascianta "dall'amichevole confusione delle citta del mare: Durazzo città sorella...".  Da tutte le finestre poteva vedere un pezzo di storia. Da una contemplare il mare e il porto. Da quella dello studio la torre veneziana costruita dallo stesso imperatore Anastasio I. Dal poggiolo avrebbe potuto gradire una parte delle muraglie della fortezza, prima che piazzassero tre metri distanti più in là un enorme collegio americano, accessibile ai benestanti. Spesso passando di là gli ultimi tempi trovavamo sull'entrata delle coppie di sposi in posa, o su per le scale. Chissà per quale infelice motivo i giovani immortalano le loro nozze sulle scale di un ingombrante Collegio Americano. Ai due lati sono collocate due alte statuette bianche. Cherubini che rivolgono lo sguardo insolente verso la cupola giallo oro della Xhamia e Madhe - Grande Moschea. Entrambi tengono nella mano destra una fiaccola, simbolo della illuminazione dell'anima, ma che a tanti pare solamente un carciofo.

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  Noi durazziani, come le madri della piazza Liria, siamo gente abitudinaria. Abbiamo il nostro macellaio di fiducia, la nostra parrucchiera, la nostra zona preferita sulla spiaggia in cui infilare l'ombrellone portato da casa e piazzare i seggiolini. Per cui l'ultimo caffè del mattino l'abbiamo preso come al solito da Mulliri i Vjeter - Il vecchio Mulino, un bar assai carino, illuminato all'interno da luci incrociate e multiple. Ricostruito su un edificio antico di due piani, è un miscuglio tra il popolare e il moderno. Si colloca in un angolo tra Viale Epidamnus e la Strada della Fortezza, cinque minuti a piedi dalla piccola moschea Fatih, in cui per prima volta ho sentito la preghiera di imam Zenel, il mio imam preferito. Ha oltre ottant'anni e si fa notare quando al tramonto attraversa la strada verso moschea con la sua testa dolce e alta sulle spalle morbide. Il suo corpo esile, contornato di sfumature calde, con un copricapo grigio leggero sulla testa, saltella sull'asfalto con una certa disinvoltura ritmica. L'ultima mattina stavamo incantati con le tazzine in mano.

La veduta di Viale Epidamnus alle sei e mezza di mattina è una brezza all'anima. A quell'ora tutto è calmo. La quiete marina, i calpestii fiacchi, il gemito dei gabbiani, i tuoni delle campane. Siamo rimasti così un bel po'. Poi ci siamo alzati, prima dell'arrivo dei prepotenti. I prepotenti della città arrivano sempre in grosse auto, scure e nuove. Parcheggiano dove pare a loro bloccando la vista degli altri e camminano a passo lento esibendo la pancia rotonda. Sbattono il mazzo delle chiavi sul tavolo e un un paio di cellulari e ordinano la colazione. Chi urlando senza alcun riguardo, chi borbottando e facendo piccoli segni con la testa. Questi sono i neo-pre - potenti della città, quelli che possono decidere se rovinare un quartiere illirico per costruire dei palazzi alti, troppo alti, se cementificare una costa intera, oppure sradicare degli alberi antichi per infilare delle palme altre, troppo alte, con ceppi di foglie morte sulla cima.

  Quando l'indomani osservavo dall'aereo come man mano Durazzo si rimpiccioliva, un pugno di muraglie, palazzine, case accucciate sul mare, solitarie nella loro sopravvivenza quotidiana, mi sono sentita vigliacca e incredibilmente inutile. D'un tratto mi sono venute in mente i versi di una canzone:

"tu marinaio dammi pipa e tabacco/ ce da guardare in faccia i mostri del mare /e chi non li teme è più che un vigliacco. Che vuoi che cambi in terra o in mare*".

Non so se ero veramente vigliacca. Può darsi che tutti lo siamo un po', ma io temevo veramente i mostri della mia città, li guardavo in faccia e non li trovavo poi così differenti dagli altri. Ma chi avrebbe protetto Dyrrahium dalla distruzione? Uno rimane sempre un numero solitario, pure il due. Anche cento se sono impauriti, insicuri e impoveriti. Chi, dunque, avrebbe guardato in faccia temendoli e contrastandoli i mostri della mia città? All'improvviso l'aereo aveva fatto un balzo bruscamente salendo più in alto, e da lì in poi non ho visto più niente che nubi e nuvole, chiarori oscillanti e insoliti fulmini docili e argentati. 

* testo Starbuck- album “Uomini e no “- Nachtcaffè