Tra passato e futuro
Diceva Tocqueville che «da quando il passato non proietta più la sua luce sul futuro, la mente dell’uomo è costretta a vagare nelle tenebre». In uno dei suoi libri più belli («Between Past and Future») Hannah Arendt aveva rimeditato il detto di Tocqueville. Secondo la Arendt il poeta francese René Char aveva tradotto Tocqueville in poesia con uno dei suoi più geniali aforismi: «la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento», aveva scritto Char.
Per questi tre autori la perdita di senso della tradizione aveva contribuito alla catastrofe. Dico: la “perdita di senso della tradizione” e non semplicemente “la perdita della tradizione”. Questo per due motivi. Il primo: i tre scrittori non lamentavano solamente una “perdita di memoria” nell’individuo delle moderne società di massa. Lamentavano qualcosa di più: la perdita del giudizio. Io posso diligentemente collezionare dati e date, offrire cronache puntigliose di fatti ed eventi, ma tutto questo non mi serve a molto se poi mi restano preclusi la loro interpretazione e il loro corretto intendimento, se, insomma, non sono in grado di esprimere un giudizio.
La storia, la «luce del passato» come diceva Tocqueville, è il fondamento indispensabile per interpretare il mondo. E per cambiarlo
Il secondo motivo: nessuno degli autori che ho menzionato avrebbe mai voluto restaurare il passato o, per dirla con le parole di Walter Benjamin, «ricomporre» ciò che con il tempo era stato «infranto». Nessuno di loro avrebbe cioè voluto tornare indietro nel tempo, ridestare l’antica Grecia o il Medioevo o la vivace stagione dell’umanesimo, per esempio.
Al contrario, questi tre autori furono lungimiranti, se non persino profetici, nella speranza di rigenerare il futuro sulla base del passato, giacché l’uomo, nella sua esistenza terrena, si trova sempre tra (“between”) le due grandi forze di ciò che è stato prima di lui (e che non può cambiare: “the past”) e di ciò che deve ancora accadere (e che può disegnare: “the future”). In altre parole, la storia non diventa pretesto per coltivare romantiche nostalgie per mondi che non esistono più, superati dall’ineludibile fluire del tempo, né tantomeno giustifica la conservazione del presente nell’illusorio tentativo di arrestare il divenire storico.
La storia, la «luce del passato» come diceva Tocqueville, è invece il fondamento indispensabile per interpretare il mondo. E per cambiarlo.
La rimozione del passato o un suo scorretto intendimento non riguardano semplicemente le dispute accademiche né sono soltanto oggetto di convenzionali chiacchiere da salotto. Riguardano invece tutti noi, poiché la storia, o meglio il giudizio storico è inevitabilmente legato ai destini di una intera società: se non sappiamo da dove veniamo, chi eravamo, non potremo nemmeno capire dove stiamo andando e chi saremo.
Ci limiteremo cioè a vivere il ciclo biologico della nostra esistenza, immemori delle eredità ed incuranti degli eredi, dimentichi dei padri e indifferenti ai figli.
Ogni despota – di oggi, di ieri e di domani – ha detestato la storia, quando non ha tentato di riscriverla secondo il suo placito. Persino gli odierni populismi si compiacciono di proliferare in un presente senza eredità e - per questa ragione - difettano del tutto di una visione del futuro. Vagano nelle «tenebre». Il disprezzo per la storia è legato all’ambizione umana verso l’onnipotenza, verso quei «pieni poteri» che non soggiacciono alle leggi del tempo e che, da quanto mi risulta, spettano solo a Dio: in questo senso la rimozione della storia non ha un significato solo scientifico o accademico, ma anche e soprattutto politico.
Anche nel nostro mondo la luce del passato non illumina il futuro
Nel 1932 dalla penna di Aldous Huxley era scaturito il romanzo distopico «Brave New World» (in italiano, «Il mondo nuovo»). Huxley aveva dato la migliore versione letteraria della filosofia politica di Tocqueville. Egli aveva descritto una immaginaria società del futuro, retta da un governo immenso e tutelare, che si preoccupava di mantenere allegri e produttivi i propri soggetti, di viziarli con innumerevoli piccoli piaceri materiali: un «mondo nuovo» pacificato e anestetizzato. Lì, in quel sistema immaginario, ogni uomo godeva di effimeri vantaggi, ma al prezzo di non pensare, di non scegliere, di delegare ogni sua scelta al potere di uno Stato benevolo e paternalista. Quello Stato teneva i suoi soggetti in perenne “stato di minorità”, drogati (con la famosa “soma”) e isolati gli uni dagli altri. Quello Stato impediva la spontanea aggregazione di individui, poiché concepiva se stesso come la sola possibile aggregazione sociale.
Quello Stato bandiva la storia. Non solo perché la considerava un cumulo di cose vecchie e quindi disprezzabili, inutili ai fini della produzione e del benessere sociale, ma anche e soprattutto perché nel passato ognuno poteva trovare la miccia con cui accendere nuove, sovversive ipotesi di libertà individuale e collettiva. Altri mondi possibili.
Anche il nostro mondo, se non nuovo di certo attuale, si presenta con i tratti di una società disaggregata e spoliticizzata, governata dirigisticamente e con la sempre maggiore alienazione dell’individuo dallo spazio pubblico. Anche nel nostro mondo la luce del passato non illumina il futuro.
E noi, anche noi brancoliamo nel buio, come quel navigante che non può giovarsi del consiglio delle stelle.