"Cpr? Una forma di segregazionismo"
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Maurizio Veglio, avvocato del foro di Torino specializzato nel campo del diritto dell’immigrazione e membro di ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), si batte da anni contro le opacità dei Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio). Martedì 5 dicembre alle ore 20 presso il Dekadenz di Bressanone sarà tra i protagonisti del talk “Ans Eingemachte”, dove accenderà i riflettori sulle discriminazioni e le violenze che si consumano nei Cpr.
SALTO Può ripercorrere brevemente la storia dei Cpr nel nostro Paese?
Maurizio Veglio: I Cpr (Centri per il rimpatrio) nascono nel 1998 con la funzione di trattenere i cittadini e le cittadine di Paesi terzi extra-UE, in attesa di perfezionare le operazioni di rimpatrio. Oggi, come già nel 2011, la durata massima del trattenimento è di 18 mesi. Questi luoghi, nati per essere una versione territoriale dei gate aeroportuali – dove si formalizza l’identificazione delle persone e l’ottenimento dei documenti per il rimpatrio – diventano luoghi di detenzione, in cui la limitazione della libertà personale è attuata con sistemi così invasivi da ricordare le carceri di massima sicurezza.
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Chi sono le persone trattenute nei Cpr?
Le persone sono recluse nei Cpr non in virtù di una condanna o di una contestazione penale, ma unicamente in ragione di una violazione amministrativa, ovvero per il fatto di non essere titolari di un permesso di soggiorno. Esiste poi una norma non vincolante che suggerisce l’opportunità di dare priorità all’ingresso nei Cpr alle persone che hanno precedenti penali rilevanti o in caso di pericolosità sociale o ancora alle persone che provengono da Paesi coi quali l’Italia ha stipulato accordi di rimpatrio.
Secondo lei, il Cpr è uno strumento efficace?
I dati ci dimostrano in modo assolutamente granitico che dalla loro istituzione a oggi, quasi sempre dopo il raggiungimento del massimo dei tempi di trattenimento il 50 percento delle persone recluse viene rimesso in libertà, perché le operazioni di identificazione e ottenimento dei documenti di viaggio non sono portate a termine. Alzare i tempi di trattenimento diventa, quindi, la classica rivendicazione propagandistica che va ad aggravare il carico burocratico dell’amministrazione e, soprattutto, le condizioni di vita delle persone all’interno dei centri per il rimpatrio.
Nei Cpr i diritti fondamentali delle persone sono profondamente lesi. Torino è forse il simbolo del fallimento dei Cpr.
Quali sono le opacità tecnico-legali che ha osservato in questi anni?
Nel caso dei Cpr, il giudice che sovrintende alla gestione e alla legittimità di questa grande macchina è un giudice onorario, che in nessun altro caso ha la facoltà di decidere in merito alla libertà personale. Il fatto che si tratti di un giudice la cui postura istituzionale non è adeguata è confermato poi da tutte le rivelazioni sulle procedure di convalida e proroga del trattenimento.
A BressanoneMartedì 5 dicembre alle ore 20 presso il Dekadenz di Bressanone, il terzo appuntamento della rassegna “Ans Eingemachte” accenderà i riflettori sui Centri di permanenza per il rimpatrio. Ad accompagnare il pubblico in questo viaggio saranno tre persone che da tempo si battono per i diritti delle persone trattenute nei CPR:
Monica Gallo, Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà per il Comune di Torino;
Maurizio Veglio, avvocato specializzato nel campo del diritto dell’immigrazione e membro di Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione);
Yasmine Accardo, attivista e referente della Campagna nazionale contro la detenzione amministrativa dei migranti “LasciateCIEntrare”.
Ingresso libero.
Come avviene questa procedura?
Il trattenimento all’interno dei Cpr è disposto dal questore, che richiede al giudice di pace la convalida del provvedimento. Nella quasi totalità dei casi la convalida viene concessa con modalità molto eloquenti. Una rilevazione del 2016 ha mostrato che più del 50 percento delle udienze non raggiungevano i 5 minuti di durata. Queste rilevazione ha evidenziato l’utilizzo di provvedimenti stereotipati caratterizzati da formule di stile e di formati a crocette. Il giudice di pace delega dunque la propria giurisdizione all’attività della pubblica amministrazione con totale spregio della giurisprudenza.
Insieme ad altri avvocati e attivisti denuncia da anni le condizioni di vita dei trattenuti.
Nei Cpr i diritti fondamentali delle persone sono profondamente lesi. Torino è forse il simbolo del fallimento dei Cpr. A fronte di 130 persone era presente un medico per 6 ore al giorno e un solo infermiere per 24 ore. Anche il mediatore linguistico, l’operatore sanitario e lo psicologo disponevano di un monte ore inadeguato. In generale, nei Cpr i servizi sono assenti e le strutture sono costantemente sotto stress, perché sotto stress sono le vite delle persone all’interno. Già vent’anni fa la Corte costituzionale ha dichiarato che nei Cpr le persone sono sottoposte alla stessa mortificazione della dignità umana che sperimenta chi si trova detenuto in carcere, ma con delle differenze sostanziali che ne peggiorano le condizioni.
Quali?
Chi finisce nel Cpr non è tutelato dall’ordinamento penitenziario, come chi invece è ristretto in carcere. Lo Stato supplisce all’assenza di una legislazione in materia attraverso la legislazione secondaria, ovvero una normazione del ministero degli interni fatto di regolamenti, circolari e direttive. Questo sottobosco para-normativo incide profondamente sulla vita delle persone e sulla sostanziale impossibilità di reazione da parte dei difensori, dei garanti per i diritti dei detenuti e delle persone stesse.
In uno scenario di questo tipo quali possibilità hanno i trattenuti per fare sentire la propria voce?
I corpi e la violenza sono spesso l’unico strumento di cui le persone dispongono per farsi sentire dalle istituzioni. Si tratta soprattutto di violenza autoinflitta, che assurge a modalità quotidiana di denuncia della situazione che si vive all’interno dei centri.
Come reagisce l’istituzione?
A Torino a novembre del 2021 si sono verificati in un mese più di 100 gesti autolesivi. La reazione è stata di totale chiusura: il Centro di Salute Mentale di riferimento territoriale non ha più permesso a chi compiva gesti autolesivi di uscire dal Cpr, perché questo avrebbe portato all’emulazione da parte di altri. Al contempo il sindacato di polizia ha etichettato questi atti come unicamente simbolici e dimostrativi. Tentare di impiccarsi, cadere per procurarsi lesioni sono stati catalogati pertanto come semplici simulacri di rivendicazione.
Come si presenta il Cpr di Torino all’interno da un punto di vista strutturale?
Il Cpr di Torino si trova tra due corsi abbastanza importanti ed è circondato da palazzi di 10 piani dai cui balconi si vede un mondo a sé. La stessa cosa vale specularmente dall’interno del Cpr, da cui si osserva la vita di una città come da una bolla insonorizzata che restituisce l’immagine di un mondo sordo alle richieste di aiuto. All’interno dispone di sei aree costruite come grandi gabbie, all’interno delle quali sono posizionati sei stanzini con una sala refettorio. All’ esterno di queste aree troviamo una palazzina per gli uffici amministrativi, un ambulatorio e 12 celle di isolamento in muratura 3x3. Queste celle, che non hanno un pulsante di soccorso o telefono e sono prive di qualunque dispositivo sanitario e medico, sono chiamate “ospedaletto”. Al loro interno sono state trattenute per mesi persone con patologie psichiatriche e qui nel maggio del 2021 si è suicidato Moussa Balde.
Dei dieci centri operativi in Italia oggi quello di Torino è l’unico al momento chiuso. Qual è la situazione attuale?
Il Cpr di Torino è chiusa da febbraio del 2023 per alcuni incendi causati dalle proteste dei trattenuti. Qualche giorno fa ha avuto luogo un incontro in Comune alla presenza del ministro Piantedosi, che ha dato un segnale forte per la riapertura del centro in tempi non definiti.
Il Cpr può essere visto come ultimo anello di una politica volta a marginalizzare e criminalizzare le persone migranti?
Sì, abbiamo a che fare con una strategia che nasce e si sviluppacon l’obiettivo idea di isolare, allontanare, contenere ed escludere un certo “target” di persone. In questo disegno vedo una politica dichiaratamente segregazionista, una forma alternativa di apartheid, una misura che porta a escludere le persone dalla vita di comunità unicamente sulla base della loro nazionalità e sull’ assenza del permesso di soggiorno.
Immaginare che gli hotspot possano impedire il movimento delle persone è a dir poco ingenuo. Chi vuole proseguire verso altri Paesi lo fa comunque.
Come si declina questa strategia?
Questa forma di isolamento ha visto la sua prima declinazione nel Cpr e dal 2015 negli hotspot, in cui realizza qualcosa di inaudito dal punto di vista giuridico: la privazione della libertà personale senza una convalida giudiziaria, ma sulla base di una circolare del ministero dell’interno che stabilisce che le persone possono uscire solo in seguito al fotosegnalamento. Questa operazione radica la competenza dell’Italia sull’ipotetica domanda di protezione internazionale di una persona. Immaginare che gli hotspot possano impedire il movimento delle persone è a dir poco ingenuo. Chi vuole proseguire verso altri Paesi lo fa comunque, anche a costo della propria vita come raccontano tristemente le cronache.
Cosa si può fare per accrescere la consapevolezza dei cittadini, che in larga parte oggi accolgono con favore le politiche securitarie in materia di migrazione?
Una strada da percorrere è la condivisione delle esperienze. Per questo è fondamentale restituire al pubblico ciò che si è raccolto. Moltissime persone vicine alle storie della migrazione oggi sono veri e propri archivi viventi, che raccolgono le testimonianze, le speranze e lo sguardo verso il futuro che caratterizzano le vite di chi migra. Questa sofferta ma deliberata dichiarazione di ottimismo racchiude il senso dello sforzo che si deve compiere, perché la condivisione e il passaparola saranno sempre più efficaci del megafono e dell’imposizione dall’alto da parte del potere.