Society | Riflessione

Il filo conduttore

“Il forestiero” ha bisogno di imparare la lingua “dell'amico” e non “del padrone”. A nessuno piacerebbe essere definito uno “straniero”, neppure ai turisti.
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Foto: Gentiana Minga

Credo che sia accaduto nel 2000. Mi trovavo in un supermercato di Appiano, di fronte alla bilancia delle verdure, una fila di persone aspettava la donna che aveva appoggiato il sacchetto con dei peperoni e, non si sa perché, rimasta immobile, studiava i numeri corrispondenti alle verdure con grande calma. Ogni tanto guardava la fila ma si percepiva palesemente che non le importava un gran che. Masticava una gomma e si grattava l'orecchio destro. Dopo un po' che la gente cominciava a spazientirsi, alzò la testa, allungò il collo e urlò verso un uomo che doveva essere suo marito:

- Si s'po gjej numrat e specave un ke kjo gjoja ketu!

Capii che era albanese. Gli stava dicendo che non riusciva a trovare il numero corrispondente ai peperoni, su quella “cosa là”. Parlava in un dialetto pesante e distante dall'albanese standard. Probabilmente veniva da uno dei paesini poveri e arretrati del centro dell'Albania, lontani da Tirana oppure da Durazzo. Ne ho dedotto che fosse poco istruita e ho supposto che sopravviveva spensieratamente in Alto Adige frequentando solo i suoi compaesani, con i quali poteva interagire con gli stessi modi espressivi, magari usando poco e male la lingua italiana. L'uomo non ha risposto e si è perso più in là tra le bevande e le torte. La fila si stava allungando e la gente ha cominciato a mormorare. Mi sono avvicinata, l'ho salutata in albanese e le ho fatto vedere dove stavano i peperoni. In seguito, la donna che non si era mossa un centimetro dalla bilancia, mi ha chiesto a voce alta come mi chiamavo, dove abitavo, se ero sposata, se avevo figli. Come mai non ne avevo?  L'ho salutata in fretta e me ne sono andata via adirata. Il primo pensiero semplice è stato:

“Ma perché siamo cosi grezzi? Che brutta figura!”

Anni dopo aspettavo alla stazione di Lecce il treno per Bolzano quando un gruppo di ragazzi con dei bagagli in mano mentre si avviavano verso la biglietteria punzecchiarono la loro amica che si tirava dietro a fatica una valigia grossa:

- “Ma dove vai con questa valigia cosi brutta ed enorme? Come gli albanesi!!!”

Io, l'albanese, quel giorno non avevo con me che una valigia piccola, ma se ne avessi avuto una “brutta e enorme”, forse voleva dire che andavo in un posto lontano - dove avrei acquistato una valigia più bella - e in cui dovevo stare a lungo.

Quando lavoravo come operaia a Watts Intermes di Caldaro, ho fatto amicizia con una donna che non leggeva mai il menu esposto vicino alla mensa. Ogni tanto mi accorgevo che infilava il dito nel naso e lo puliva con calma, mentre gli altri mangiavano. Dopo ho saputo che non sapeva né leggere, né scrivere. Era italiana, della Sicilia. A parte questo, una bravissima donna. Grande lavoratrice e con un cuore d'oro.

Di persone come la donna al supermercato oppure quella in fabbrica, ne ho conosciute diverse, tra cui veneti, sudtirolesi, altoatesini e con il passare del tempo il mio pensiero semplice di prima, cioè “Ma perché siamo così grezzi?” si è rivelato falso. Ero caduta nella trappola della “identità collettiva” e nella percezione italiana le comunità albanesi erano più o meno così. La nostra provenienza, in un paese diverso da quello natale, comporta l'acquisizione dello status di straniero, status che si acquisisce immediatamente con o senza il nostro esplicito desiderio. Noi diventiamo albanesi e stranieri appena ci addentriamo in una società nuova e rischiamo di rimanere tali, se quest'ultima ci ha raggruppati una volta per sempre in questa stragrande seconda categoria.                                                                                                                                                                         

In Italia secondo le ultime statistiche si contano quasi 489 mila albanesi, tra quali 5.332 in Alto Adige. Tutta questa massa di persone viene identificata secondo la cittadinanza e poi suddivisa in maschi, 2853, e donne 2479. Tuttavia una persona:

“ ...dispone di una moltitudine di caratteri identitarie che possono essere più o meno significativi: la religione, il sue sesso, la sua professione, la sua morale, le sue idee politiche, il suo segno zodiacale” *

Un albanese in Italia è soprattutto quello che in Albania è scontato, cioè albanese. Ma gli albanesi si trovano uguali tra di loro? Gli stranieri si trovano uguali tra di loro?                                                                                                                             

Nella comunità albanese dell’Alto Adige, fra quelli conosciuti e frequentati, mi sono trovata a mio agio solo con il 30 % delle conoscenze. Sarebbe stato uguale se le frequentazioni fossero state in Albania. Mettendo da parte la nazionalità, ognuno di noi proviene da differenti parti dell'Albania, da differenti esperienze storiche e sociali, culturale e culinarie, da vari livelli di istruzione. C’è chi ha vissuto bene durante il regime Hoxha e rimpiange i tempi del “comunismo” e chi ha visto i suoi famigliari perire di fame o morire in carcere, oppure in qualche campo di internamento. Poi ci sono i giovani che approdano in Italia, gli albanesi che conoscono a malapena il passato del loro paese e che vivono galoppando il presente. Quello che portano con sé “di albanese” è quasi una vaga conoscenza, un penombra di un paese caotico, povero e con poche possibilità. E in questa miscela che ha come filo conduttore la nazionalità e lo status dello straniero, ci sono i giovani della seconda generazione, quelli nati qui, oppure giunti relativamente piccoli, che spesso non si trovano né tra “noi” né tra “loro”.                                                                                                                                                                                                                                 

Siamo tutti albanesi, laureati e non laureati, istruiti oppure no, dal nord al sud dell'Albania, da est a ovest, musulmani e cristiani, ortodossi e agnostici. Comunisti oppure socialisti, di destra o di estrema destra.

“la trappola scatta quando le persone vengono ridotte o riducono se stesse ad uno solo di criteri” *

- Ma … secondo voi chi sono io? Voi siete italiani, io sono italiano. Ma basta questo per essere uguali? Io sono come voi? Se esco per strada con Mimmo, che è contento di vivere in un posto cosi, che dice la gente? Che siamo uguali?  - chiederà tormentato Nino Manfredi nel ruolo di Giovanni Garofoli detto Nino ai suoi compagni di pollaio.

Giovanni non riesce a concludere il suo discorso angosciante perché gli interlocutori si precipitano a sbattere sulle sbarre di ferro per contemplare una scena paradisiaca, in cui dei giovani, ragazzi e ragazze, capelli lunghi biondi, lisci e brillanti, con corpi snelli, sagome eteriche si svestono uno dopo l'altro, e nudi con pelle di cera giocherellano tra di loro. Chi si arrampica sugli alberi, chi cammina sull'erba e chi gode delle onde del lago e del soffiare del vento tra i rami degli alberi. Si tratta del celebre film di Franco Brusati “Pane e cioccolata” in cui Nino (Giovanni Garofoli), dopo vari tentativi di conquistare la sua dignità nella società svizzera, disposto anche a cambiare il colore dei capelli, il modo di camminare oppure il sorriso, si rende conto di aver fallito. Il suo è un fare le cose perché “costretto” e non per il piacere di farle.                                                                                                                                                                                                                                                   

Essere costretti a imparare le lingue (due in Alto Adige ...) del paese “ospitante”, come appartenenti ad una precisa categoria spesso disprezzante, è assai vincolante per una persona che vorrebbe convivere bene e dignitosamente tra i suoi simili. Il forestiero ha bisogno di imparare la lingua “dell'amico” e non “del padrone”. A nessuno piacerebbe essere definito uno “straniero”, neppure ai turisti, che hanno il fascino temporaneo degli ospiti gradevoli. Noi siamo altro oltre il nostro status di straniero.

Prendete me ad esempio. Io amo le pizze e i canederli al formaggio e per nessun motivo mi perderei i film di Ettore Scola e Monicelli. Mi piace il caffè al bar, e mi commuove tuttora “Le luci della città “ di Chaplin. Mi lascia senza fiato la poesia di Pasolini e mi trovo bene tra i volontari e i "ribelli". Io sono questa e molte altre cose ancora. Cose che scoprirò di me da sola o assieme ad altri. Come in ogni persona, ognuno può trovare dentro di me un pezzo di ricambio per se stesso. Un pò dell'insegnante e della giornalista, della bambinaia e della cameriera, e di tante altre cose differenti tra di loro. La mia cittadinanza e lo status di “straniero” non basterà mai a creare dei legami salutari e fruttuosi con il mondo. Se trattati da eguali l'unico filo conduttore perenne e infallibile sarà l'essere umano che è in noi.

 

* Stare insieme è un arte/ vivere in alto adige sudtirol : Lucio Giudiceandrea- Aldo Mazza. Con due contributi di : Gabriele di Luca & Hans Karl Peterlini/ ed. alphbeta Verlag.- comunità e identità- la trappola dell'identità,pag.47

* Stare insieme è un arte/ vivere in alto adige sudtirol : lucio Giudiceandrea- Aldo Mazza. Con due contributi di : Gabriele di Luca & Hans Karl Peterlini/ ed. alphbeta Verlag.- comunità e identità- la trappola dell'identità,pag.47