I gesti che hanno ridefinito la donna
Siamo di nuovo qui a parlare di corpi e di donne, di corpi femminili che si fanno strumento di una volontà espressiva, tramite di un linguaggio artistico radicale e per molti aspetti rivoluzionario. A Merano Arte è approdata ieri Gestures, la mostra curata da Valerio Dehò, sua ultima creatura nelle vesti di direttore artistico dell’istituzione meranese. Gestures arriva da lontano, precisamente dal Kaohsiung Museum of Fine Arts di Taiwan dove Dehò l’ha realizzata originariamente nel 2015. Lì gli spazi e gli investimenti consentivano di tracciare un percorso ampio e approfondito sulla storia della performance nel suo complesso, con riferimenti anche ai movimenti affini, tra Body Art e Fluxus.
A Merano Arte arriva invece una selezione delle opere presentate a Kaohsiung e, in linea con una traiettoria che è andata definendosi negli ultimi anni con le mostre dedicate a grandi protagoniste della storia dell’arte al femminile, con Cindy Sherman, Birgit Jürgenssen e Francesca Woodman, il curatore sceglie di focalizzarsi sulle “Women in action”. Video e fotografie documentano la storia della performance attraverso le sue protagoniste più iconiche, che hanno portato l’ampiezza del “gesto” ad estremi assoluti: Yoko Ono in Cut Piece si lascia tagliare i vestiti dal pubblico fino a rimanere nuda e inerte, simbolo della fragilità della donna offesa dalla generale vessazione contro il suo sesso; l’intramontabile astro di Marina Abramovic dai suoi esordi alla Settimana Internazionale della Performance di Bologna del 1977, quando insieme al compagno di allora, l’artista Ulay, costringeva il pubblico a mantenersi impassibile di fronte alla forzatura di confrontarsi a pelle con la nudità di due corpi, maschile e femminile, fino alla cruda e rituale pulitura di una montagna di ossa insanguinate in Balkan Baroque, performance che le valse il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1997; le estreme ricerche identitarie ed estetiche di Orlan e il gesto semplice ma drammaticamente forte di Ana Mendieta; le provocazioni all’universo simbolico maschile di VALIE EXPORT e le incisioni sulla pelle di Gina Pane e Regina José Galindo, specchio di una sottile tortura ancora e ancora praticata sul corpo delle donne.
In Gestures si rispecchia una storia iniziata negli anni Cinquanta, che ha visto il corpo dell’artista trasformarsi in strumento e oggetto di ricerca. La presenza fisica, la fisicità in tutti i suoi aspetti più materici e scabrosi, con gli odori e gli umori, il sangue e la carne, è stata la grande rivoluzione della performance. Il pubblico non si trovava più di fronte ad un artificio ma ad un’imprescindibile realtà. Non c’era più un passaggio temporale tra la produzione dell’opera e la sua fruizione, passaggio che rischia di inficiarne la necessità e le intenzioni: l’opera si compie nell’hic et nunc, è immediata nel senso più compiuto del termine, ovvero priva di mediazioni, e giunge con tutta la sua crudezza ad un pubblico a volte imbarazzato, altre impreparato, altre inorridito. Portare nudità, sesso, aggressività, crudeltà, rivendicazioni delle donne direttamente allo sguardo del pubblico, in anni in cui la censura morale ancora contava la lunghezza dei casti baci al cinema, in cui la pubblicità portava in tutte le case l’unico modello della donna casalinga entusiasta del nuovo elettrodomestico, è stato uno schiaffo alle coscienze, una chiamata alle armi per una rivoluzione culturale di cui, fortunatamente, ancora oggi la nostra società può trarre vantaggio.
A circa cinquant’anni dagli esordi di questa pratica artistica ci chiediamo e chiediamo al curatore, Valerio Dehò, se la performance abbia oggi la stessa forza di allora: “Dopo cinquant’anni la performance ovviamente è cambiata. È cambiato l’uso del corpo in rapporto alla fotografia. Se allora la fotografia era pura documentazione, oggi diventa l’opera in sé. Anche in conseguenza di leggi del mercato. L’aspetto performativo esiste ancora, ma oggi è meno forte. È piuttosto inserito in un aspetto intellettuale, per cui la performance finisce per avere più che altro una dimensione sociologica. Allora era una novità assoluta e si scontrava con reazioni generali di incredulità e stupore. Oggi è più uno strumento introspettivo. E le performance di oggi sono spesso sceneggiature che chiamano il pubblico a interpretarle. Realmente rivoluzionaria oggi è solo la performance in determinati contesti culturali che non hanno ancora attraversato un processo di liberalizzazione. Portare la performance a Taiwan è stato sicuramente importante, perché là non conoscono nulla di questa storia. Oppure il lavoro di Regina José Galindo in Guatemala è ancora molto forte per il contesto sociale in cui opera. Noi ormai siamo fondamentalmente cinici. Non c’è più verginità nel nostro sguardo che è ormai abituato a crudezze di ogni genere. La performance è diventata un linguaggio fra tanti, ma è difficile trovare oggi artisti di nuova generazione che facciano della performance una living art come è stato in passato.”
Certo in mezzo secolo la nostra società si è plasmata anche attorno alle istanze che le avanguardie culturali hanno posto anni addietro. Eppure, se da una parte sembra essersi affermata una civiltà ormai smaliziata e aperta, dall’altra non mancano recrudescenze e resistenze al cambiamento che sembrano impossibili da eradicare, e la condizione della donna sembra essere fra queste. Per questo sento un particolare prurito nei confronti di azioni “di genere”, perché ho sempre la sensazione che siano una sorta di contentino sociale alla tematica, che mantenga però il femminile sempre relegato in una nicchia, in una sorta di fascia protetta. Chiedo a Dehò se è d’accordo: “Be’, sì, il rischio è sempre quello delle “quote rosa” dell’arte. Ma il taglio di genere è comunque importante per il pubblico, perché è più facile in questo modo comprendere alcune dinamiche. Poi, chi partecipa al mondo dell’arte generalmente fa parte di una certa élite culturale che ha già introiettato una serie di valori, ma per la maggior parte della società non è così. Certo, oggi forse sarebbe più provocatoria una mostra di genere di soli uomini.” Simpatizziamo entrambi con il “caso” Ulay, stritolato dall’imponente forza di un personaggio come Marina Abramovic. “Ma in tema di donne ed emancipazione – prosegue Dehò – c’è ancora molto da fare. Il corpo della donna ormai non fa più scandalo. Ma non di meno viene continuamente sfruttato nella generale mercificazione. È il modello dell’uomo ad essere oggi in profonda crisi identitaria. L’uomo che non è più in grado di definire se stesso e il proprio ruolo, a fronte di una donna sempre più padrona del proprio destino, finisce per reagire con l’unica arma che conosce dai primordi: la violenza.”
Ma può l’arte avere ancora una forza tale da provocare un reale impatto sulla società, non solo quella degli addetti ai lavori? “Perché sia così, le istituzioni dovrebbero tornare a fare cultura. Ovvero assumersi delle responsabilità, avere il coraggio di rischiare e riscoprire il piacere della ricerca fine a se stessa.”
Ardua impresa, coi tempi che corrono. Intanto anche Merano Arte rinuncia a un direttore artistico che ha sempre saputo fare scelte anticonvenzionali. Non si escludono collaborazioni future, ma per ora Gestures rimane l’ultima mostra di Valerio Dehò nel tempio dell’arte meranese. Un’antologia di gesti forti che suggella un sodalizio di 25 anni, in cui i gesti forti, soprattutto per la città di Merano, non sono mancati.
Gestures - Women in Action
06.02. - 10.04.2016
Merano Arte
Portici 163 Merano
Orario: 10.00 - 18.00
Lunedì chiuso