Occupazione femminile contro la povertà
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L’occupazione femminile protegge dal rischio di povertà lavorativa, lo conferma un’indagine scientifica dell’Università di Trento. Oggi gli individui occupati appartenenti a famiglie monoreddito sono più a rischio di essere ‘lavoratori in condizione di povertà’. E' ciò che emerge dalla ricerca che ha analizzato i dati di 14 paesi europei dal 2004 al 2019. Le cose cambiano se lavora anche il secondo partner, solitamente donna: il rischio di povertà del nucleo familiare si riduce drasticamente.
Nonostante i cambiamenti della società moderna siano molti, esistono ancora nuclei familiari che seguono il male breadwinner model, in cui è cioè l’uomo a “portare a casa la pagnotta”. Funziona ancora questo modello di famiglia? Lo studio sul rischio di povertà lavorativa, pubblicato sulla rivista European Societies, ha indagato i livelli e i determinanti della povertà nel lavoro in 14 paesi dell’Europa occidentale, comparandoli tra loro. In particolare, sono state studiate le condizioni lavorative di uomini e donne tra i 18 e i 65 anni sotto la lente il reddito familiare, il numero dei figli, il livello di istruzione, le condizioni lavorative di chi ha la responsabilità dello stipendio, il tipo di contratto e la durata.
L’analisi, condotto da Paolo Barbieri, Stefani Scherer e Giorgio Cutuli del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento, mostra che gli occupati poveri sono maschi, adulti, unici percettori di reddito salariale in una famiglia con più componenti. Il tasso di rischio di povertà lavorativa è maggiormente elevato nei paesi dell’Europa mediterranea come Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, dove sono più presenti famiglie monoreddito. Nel caso specifico dell’Italia, i lavoratori poveri (working poors) sono il 12% dei 22 milioni di occupati, cioè circa 2,6 milioni. Ma se si considerano anche i familiari, il dato raddoppia.
I lavoratori più esposti sono quelli non qualificati, autonomi, con contratti atipici, impiegati nei servizi di supporto alle imprese e di cura alla persona, che occupano manodopera non specializzata. I gruppi monoreddito, di classe sociale bassa, con una bassa istruzione e poche risorse in uno stato di povertà lavorativa fanno più fatica a riscattarsi, prosegue lo studio.
"I nostri risultati sostengono che creare occasioni occupazionali, unitamente a sostenere politiche attive del lavoro e occupazione femminile, è più efficace che non limitarsi a distribuire reddito."
La conclusione a cui sono giunti i ricercatori è che i sussidi economici elargiti a favore delle classi più bisognose non riducono il rischio povertà. I meccanismi che producono la povertà lavorativa sono elementi di strutturali come stipendi bassi, lavoro precario, bassa istruzione, crescita del settore dei servizi a bassa produttività. I regimi familiari a doppio reddito hanno il potenziale per migliorare l'uguaglianza sociale, non solo tra uomini e donne, ma anche tra le generazioni e tra le varie classi sociali, per questo è necessario implementare occasioni occupazionali.
"In letteratura – spiega uno degli autori, Paolo Barbieri – c’è un dibattito aperto sul fatto che distribuire soldi crei dipendenza dal welfare. Questi interventi funzionano solo se riducono il rischio di ritornare in povertà una volta che la misura finisce. Quindi domani quella famiglia non sarà più povera. Quello che noi mostriamo – sottolinea il docente – è che questo meccanismo di “genuine state dependance” ha un peso causale relativamente basso nel determinare il rischio di persistenza nella povertà lavorativa. I nostri risultati sostengono una lettura secondo la quale creare occasioni occupazionali, unitamente a sostenere politiche attive del lavoro e occupazione femminile, è più efficace che non limitarsi a distribuire reddito".