Culture | Salto Afternoon

La Milano della notte e dei piccioni

Tea Hacic-Vlahovic, autrice de “L’anima della festa”, affronta temi come la sessualità, la droga e la voglia di libertà. Una voce che non teme di dire cose scomode.
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Foto: Fandango Libri

Prima di vivere a Los Angeles dove registra il suo podcast “Troie Radicali”, Tea Hacic-Vlahovic era una studentessa di fashion design alla NABA di Milano. La vita e in particolare le notti milanesi sono il centro del primo romanzo di questa scrittrice e performer croato-americana, una specie di memoir che attraverso Mia, una protagonista alter ego, raccoglie i ricordi dei tempi dell’università. Mia, giovane espatriata americana, arriva nella città italiana della moda e dei locali all’inizio degli anni Duemila per iniziare un’esistenza fatta di serate che terminano il pomeriggio del giorno successivo, vestiti in poliestere di H&M, top di retina di American Apparel, postumi, cibo scadente e, soprattutto, porzioni ridotte, cocktail e shottini. Quello che potrebbe sembrare il ritratto di un party senza fine, appare una quotidianità fatta anche di complessi, sofferenza ed emotività calpestata.


Il clubbing è scandito da “chiacchierate” con i piccioni di piazza Duomo, il divertimento è interrotto da pene d’amore, l’estasi è ritmata dal down. Si dice che dopo la notte arrivi sempre il giorno, ma spesso per chi vive la notte è proprio questo il problema: l’alba del giorno dopo. Momenti serali dove sembra possibile esistere solo nel qui e ora, dove sembra possibile creare legami di complicità e vicinanza con persone sconosciute, dove sembra possibile essere felici, si alternano ai racconti di mini appartamenti condivisi, lavori mal pagati e giornate di solitudine.
“L’anima della festa”, pubblicato da Fandango e presente in libreria da aprile 2021, non racconta solo il mondo della Milano notturna, ma anche un modo di affrontare la vita.

 

salto.bz: Leggendo il libro ho avuto la sensazione che per vivere la Milano dei locali e delle nottate decadenti fosse necessario limitare qualsiasi atteggiamento introspettivo. Come se fermarsi a pensare facesse scoprire l’artificiosità di un ambiente, di una vita. È forse così? Gli anni che hai raccontato ne “L’anima delle festa” ti hanno lasciato qualcosa di più rispetto a una somma di istantanee di serate, vita sociale, esperienze sessuali?

Tea Hacic-Vlahovic: Mi hanno lasciato tutto, anzi stavo pensando sempre al significato di ogni festa, ogni persona presente, ogni outfit, ogni canzone. Ora che vivo una vita un po’ diversa e guardo indietro capisco che alcuni momenti che potevano sembrare superficiali erano i più significanti. Mi hanno lasciato la mia identità che avrò per sempre.

Il racconto della vita notturna milanese mi ha ricordato quella berlinese pre Covid. Quello che ho sempre sofferto è il paradosso per cui quelle stesse persone che appaiono libere in alcuni ambiti della vita come l’uso di droghe e la sfera sessuale non mostrino un atteggiamento altrettanto radicale in altri aspetti come quello politico-sociale. Della serie, non temo di sballarmi fino a perdere i sensi ma non rivelo la stessa audacia nell’ambito lavorativo lasciandomi sfruttare dal mondo della moda. Che senso ha, dunque, definirsi “punk”, “liber*”, “radical*”?

Non è colpa delle persone che si sentono liberi solo alle feste, lo sai tu per prima. Non è una ipocrisia, è la prova che la società quotidiana è oppressiva che noi dobbiamo nasconderci nel buio per poter vivere come vogliamo davvero. Penso che la libertà che qualcuno vive a una festa, in un modo la userà il giorno dopo. Un modo sottile che a poco a poco cambia le cose.

Non fai segreto di usare droghe. Secondo te è possibile dividere le droghe in base a un parametro di classe? Tipo, coca per donne e uomini in carriere; erba per chi vuole rilassarsi; oppio per chi desidera un’esperienza di pace quasi artistica (volendo fare una divisione molto arbitraria, la coca per chi vota destra, erba e oppio per chi sta a sinistra). Il consumo di droghe è molto cambiato negli ultimi decenni. Ormai in alcuni ambienti è abitudine comune il microdosing per aumentare la propria performatività. Non credi che dagli anni Ottanta in poi ci sia stata una forma di appropriazione? L’immaginario underground della droga di certo non si sposa con quello del lavoro in un ufficio legale o della Silicon Valley…

Nel mio podcast, Troie Radicali, racconto il fatto che i ricchi che usano coca sembra glamour ma i poveri che usano crack sono percepiti come criminali. Vivo a Los Angeles, dove puoi comprare l’erba nel negozio legalmente, gli uomini bianchi diventano milionari grazie a questa nuova norma mentre tanti uomini di colore solo in prigione per lo stesso motivo. Il microdosing di funghetti nell’industria tech è normale, mentre fumare meth in Texas sembra tragico. Come ogni cosa, class, race, gender definiscono come le tue esperienze verranno giudicate. E io non credo nel giudicare nessuno.

 

Mi racconti uno degli episodi più memorabili che ti ha vista protagonista nell'ambiente della moda milanese (oltre alla festa di Natale a casa di Dolce & Gabbana*)?

Ero sempre la protagonista, anche quando nessuno mi guardava. Le sere più memorabili sono quelle che non ricordo.

Ho trovato interessante come nel libro affronti senza alcun timore l’insoddisfazione sessuale femminile. Il sesso pare contemporaneamente una sfera tanto importante quanto sopravvalutata. In particolare il sesso penetrativo. Cosa consigli alle donne che vogliono una sessualità libera e possibilmente soddisfacente?

Io sono l’ultima persona che può dare consigli del genere, (come sapete da libro). Ogni donna è diversa. Però so che una delle ragioni per cui le donne non godono nel sesso è la vergogna, e la vergogna è una cosa da sradicare da te stessa, da sola.

 

Altro tema che affronti senza retorica è quello della solitudine. In una società che ci vorrebbe tutt* sempre conness*, che ci restituisce un immaginario fatto di gruppi affiatati di amici e quadretti di coppia stile Mulino Bianco ma che spinge verso un individualismo esasperato, come si può sopravvivere al senso di inadeguatezza?

Quando mi sentivo sola e tragica (come una “povera puttana”, as I say), la mia ribellione era condividere la mia tristezza con il mondo. Quindi piangevo per strada, così tutti mi vedevano… salutavo i piccioni e barboni. Non sei mai da sola con la strada e le tue lacrime!

Ultima domanda: l’altro giorno affacciandomi alla finestra ho visto la mia vicina di casa con indosso la maglietta di “Troie Radicali”. Chi sono le “tue” troie radicali?

Sono tutte le ragazze** che non hanno paura di bere uno shot di vodka a mezzogiorno e mandare affanculo un prete.

*da un’intervista pubblicata su “nss magazine”: “Essere invitata a quella serata era un BIG DEAL. Non era un grande ‘fashion party’. Questo era solo per friends & family. Quindi ovviamente, mi vesto bene: una gonna di Zara, scarpe Topshop e top di American Apparel. Mi strafaccio prima di arrivare, con il mio amico Filip. Avevamo già bevuto un litro di Tavernello a testa, e qualche whiskey da Col di Lana n. 1. La casa è un sogno barocco, come immagini. Tappeti e oro ovunque. Gente bella, sofisticata, ricca. C’è la musica ma nessuno balla. Chiedo al mio capo del momento, ‘Perché nessuno balla?’. E io comincio a ballare, violentemente. Dietro di me, un cameriere mega bono ha tra le mani un vassoio, con 12 bicchieri di champagne e vari succhi. Io, mentre ballavo, l’ho colpito da dietro, facendo cadere tutto, ovunque. Sui tappeti, divani, vestiti… il mio capo mi dice, ‘Ecco perché nessuno balla’.
Il giorno dopo, un articolo su qualche rivista ha pubblicato una storia sulla festa di Natale, descrivendo in dettaglio la cazzata che ho combinato. Quando ho visto l’articolo, ero imbarazzata… poi mi sono alzata dal letto e ho visto che nella mia borsa c’erano un profumo di D&G, un blush, un rossetto, tanta roba… L’avevo rubata quando ero andata nel loro bagno a vomitare. Non ero più imbarazzata. E non sono stata più invitata.

**persone femminine, gay, trans and/or glamorous!