Pahor e Zoderer, insieme
“Sento il fresco sul copin!”. È il 6 settembre del 2008 e a Mantova deve fare particolarmente fresco, se lo scrittore Boris Pahor arriva a domandare alla moderatrice Marilia Piccone di cercargli una giacca. Con la schiettezza da ultranovantenne e gli “è vero?” pennellati di accento triestino, sul palco del Festivaletteratura Pahor travolge l’altro ospite della serata: Joseph Zoderer. Lui la testa ce l’ha coperta, dall’immancabile cappello che lo accompagnava ovunque.
Estranei in casa
Lo scrittore sudtirolese di lingua tedesca e l’autore triestino di lingua slovena sono scomparsi la scorsa settimana a soli due giorni di distanza, il 30 maggio e il primo giugno 2022. A Mantova, quasi quattordici anni fa, dialogarono sul rapporto tra letteratura e minoranze linguistiche. “La scrittura è importante per confermare la propria identità. Scoprire di essere sloveno, scoprire che il fascismo voleva distruggerci, è stato un fatto liberatorio. Ed è stato istintivo il bisogno di scrivere in sloveno: attraverso la lingua ho confermato la mia identità” esordisce Pahor. Ma la questione diventa ben presto politica: “Oggi lo sloveno e l’italiano ‘coabitano’ a Trieste, ma nel Giorno del Ricordo ci si ricorda delle foibe, degli esuli istriani, ma non i 25 anni di fascismo e l’occupazione italiana della Slovenia. Attendiamo ancora che l’Italia lo riconosca e per questo ci sentiamo ancora degli estranei”.
“Per me non è mai stato un problema essere ‘italiano’ oppure ‘tedesco-austriaco’ - aggiunge Zoderer - Quando vivevo a Vienna mi sentivo parte della scuola viennese, uno scrittore austriaco come il resto del mondo austriaco, e non mi interessava la questione sudtirolese. Quando sono tornato mi sono meravigliato che nessuno la tematizzasse. Come scrittore tale situazione mi ha arricchito. Sarei potuto tornare a Vienna, ma ho scelto i boschi in montagna, e non la vita urbana, perché era più ‘esotico’, come per altri sessantottini era la giungla o l'Afghanistan. Questa vicinanza tra mondi linguistici non mi fa sentire ‘estraneo’, ma europeo”.
I grandi scrittori dovrebbero curarsi delle lingue di minoranza di un paese - Boris Pahor
“Da noi la situazione è diversa - gli risponde Pahor - la maggioranza è italiana e solo il circondario, la campagna è slovena. Tito, con l’idea dell’internazionalismo, voleva che gli sloveni si candidassero nei partiti italiani. Mentre dai tempi dell’irredentismo sino a oggi Trieste doveva rimanere italianissima e non sporcarsi con lo sloveno. Le tabelle bilingui vengono vandalizzate, c’è chi è contrario alla pacificazione e all’Europa. La situazione è sempre in ebollizione”. Per questo “la lingua del cuore non può che essere politica, quando si difende. Quando si parla di libertà, la scrittura diventa politica”. “La vita è sempre politica”, gli fa eco Zoderer (“è così per forza” ripete Pahor) e, prosegue lo scrittore pusterese, “mi fanno ridere gli scrittori che vogliono nascondersi dalla realtà politica. Io mi sento figlio di un operaio quasi sempre senza lavoro, e mi sento di sfidare la politica” come avvenne con la rana crocifissa di Kippenberger.
Due “passeur” delle lingue? “Non domandiamo altro di essere una congiunzione - sorride Pahor - ma sono i politici che decidono le amicizie. La Slovenia poteva fare la traduttrice fra tedeschi, italiani e sloveni, scegliendo una vita culturale plurima, invece ha scelto la NATO e di spendere i suoi soldi nei carrarmati”. “Forse fallirò, ma io ho pensato di poter scrivere di Sudtirolo dando un contributo alla letteratura internazionale” è l’auspicio, velato di amarezza, dell’autore di Brunico. Intanto Pahor ha fretta di concludere, si alza finalmente con la giacca sulle spalle, Zoderer con l’immancabile cappello - e un sorriso di ammirazione per il loquace omologo da un’altra terra di confine.