Society | Strutture

Soffia un vento inquieto tra le corsie

Seconda parte della ‘travagliata storia dell’ospedale di Bolzano’.

Forse mai come ora il popolo in camice bianco dell’Ospedale di Bolzano si domanda quale sarà il futuro della struttura in cui lavora.
Non che in passato tutto sia sempre filato liscio. Basti ricordare, per fare un esempio, le ruggenti polemiche degli anni 80 sulla mancanza di un servizio di neurochirurgia d'urgenza. Fu coniata allora la definizione forse un po' enfatica ma efficace, di "voli della morte" per definire quei viaggi in elicottero necessari per trasportare i traumatizzati gravi verso le sale operatorie di Innsbruck e Verona. Le polemiche, esterne e interne, si sono placate quasi per incanto in coincidenza con l'assunzione di tutte le competenze in campo sanitario da parte della provincia autonoma. Erano gli anni dei bilanci in crescita esponenziale e ininterrotta, di una disponibilità finanziaria che permetteva di soddisfare tutte le richieste. Una pace sanitaria incrinata semmai solo dal sempiterno problema di reperire personale bilingue, risolto peraltro con molto pragmatismo, ingaggiando, a gettone o con contratti a termine, medici, infermieri inservienti provenienti da mezzo mondo e dal bilinguismo più che problematico.

Sono gli anni, però, nei quali proprio per effetto delle scelte politiche provinciali la sanità altoatesina cambia completamente  volto. La piramide tradizionale, con vertice l'ospedale bolzanino, poco più sotto quelli di Merano e Bressanone e alla base le piccole strutture periferiche viene completamente spianata. Nasce, di fatto, un sistema totalmente orizzontale nel quale gli ospedali della periferia ricevono tali mezzi e tale impulso da assumere dimensioni quasi paragonabili a quelli centrali. È il famoso modello sanitario sudtirolese, fiore all'occhiello della seconda autonomia, esempio vantato in ogni sede e da ogni pulpito quando si tratta di enumerare i benefici che l'autogoverno ha portato alle popolazioni locali. Da Bolzano il fenomeno viene osservato con diffidenza prima e con crescente inquietudine poi, quando si capisce che la nuova filosofia finirà inevitabilmente per intaccare il ruolo e la sostanza del compito assegnato al maggior ospedale della provincia. Si assiste intanto all'inevitabile fuga del personale verso le sedi periferiche, dove i ritmi sono sicuramente meno stressanti e dove la moltiplicazione degli incarichi, dei primariati ad   esempio, assume dimensioni  epiche.

La crisi esplode con l'inizio del nuovo millennio quando, nonostante la perdurante fluidità dei bilanci provinciali, si comincia a parlare di tagli. Vengono a galla, in quel momento, le tensioni e i contrasti rimasti sotto traccia negli anni del "boom". Iniziano contenziosi con il personale, con i medici e gli infermieri.

In particolar modo e per la prima volta, a Bolzano, qualcuno osa porre il problema di un ridimensionamento delle  strutture sanitarie periferiche a favore di un potenziamento dell'ospedale centrale che, oltre a dover servire direttamente ben più della metà di tutta la popolazione altoatesina, è anche il punto di riferimento obbligato per tutta la rete sanitaria del resto della provincia quando occorra intervenire su casi di una certa urgenza e di una certa complessità.
La risposta della politica va esattamente nella direzione opposta. Si commissionano degli studi, si fanno delle ricerche, si sollecitano illustri pareri e alla fine si decide di insistere sul modello del sistema ospedaliero "diffuso", decentrando nelle varie strutture periferiche determinati compiti. Un contestatissimo esempio di questa scelta politica è quello di realizzare a Merano un reparto di medicina cosiddetta "complementare", che offre i pazienti di tutta la provincia la possibilità di sperimentare terapie alternative come l'omeopatia, agopuntura, l'aromaterapia e altre ancora.

A Bolzano  intanto i tagli, da ipotesi teoriche stanno diventando pratica quotidiana e si riflettono soprattutto, come spesso avviene in questi casi, sul costo del personale. Gli organici non aumentano più e in qualche caso diminuiscono. La situazione si fa pesante soprattutto in certi reparti come quello di medicina e di ortopedia.

Siamo arrivati ai giorni nostri. Il combinato disposto dei tagli sempre più notevoli imposti da Roma al bilancio provinciale e delle indicazioni fornite a livello internazionale dalla politica sanitaria che impone la chiusura dei reparti specialistici che non effettuino un minimo di prestazioni ogni anno, mette in crisi nuovamente il modello sanitario altoatesino. La richiesta di tagli è ancora più drastica e immediata che nel passato. I responsabili dell'organizzazione sanitaria, che nel frattempo sta passando attraverso una fase di riorganizzazione che però non ha eliminato per nulla i doppioni e le dispersioni del passato, cercano di far passare, pur senza arrivare alla rivolta palese un messaggio molto chiaro. A noi, fanno capire, si può chiedere di intervenire nella gestione quotidiana del sistema, ma le scelte di fondo sono di totale competenza dei politici, gli stessi che per decenni hanno menato vanto dei successi sanitari altoatesini e che ora devono assumersi la responsabilità delle scelte anche impopolari e dolorose.

La tentazione di nascondersi dietro qualche studio tecnico è forte ma illusoria. Sul tavolo il problema è squisitamente politico, da affrontare, magari, tenendo conto anche del fatto che prima o poi bisognerà guardare in faccia un'altra scomoda verità: in un sistema sanitario moderno anche le dimensioni di una provincia di 500.000 abitanti sono troppo ridotte. Non è lontano il momento nel quale bisognerà sedersi al tavolo con Trento (dove la crisi non è meno acuta) con il Tirolo e con Verona per dar vita a una struttura veramente capace di rispondere a ogni livello alle esigenze di salute dei cittadini.
Il resto sono chiacchiere.

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