Economy | La crisi della siderurgia

Ilva: l'unica soluzione è tornare a una forma di gestione pubblica

Lo pensa Alessandro Leogrande, ospite giovedì (5 novembre) a Bolzano della Fondazione Langer, che sul tema ha scritto il libro “Fumo sulla città” (Fandango).

Sulla crisi dell'Ilva è stato scritto molto. Evidentemente non abbastanza, però, per comprendere l'essenziale: la contraddizione tra diritto al lavoro e diritto alla salute – il nodo apparentemente inestricabile che a Taranto ha strozzato un'intera città – non riguarda una realtà particolare o particolarmente depressa. E' un nodo – e dunque uno snodo – cruciale per pensare la politica industriale del futuro e dunque anche la politica tout court. Ne è pienamente convinto Alessandro Leogrande, vicedirettore della rivista “Lo straniero”, e autore di un libro (Fumo sulla città, Fandango 2013) che finalmente contestualizza le vicende relative al fallimento del più grande polo siderurgico italiano. Leogrande era giovedì (5 novembre) alla biblioteca Oltrisarco, dove ha presentato il suo volume assieme a Giovanni Accardo e Michele Buonerba. L'abbiamo intervistato.

Salto.bz: Alessandro Leogrande, il suo libro è diviso in tre parti, scritte in tre momenti diversi: perché questa scelta?
Alessandro Leogrande: Le tre parti corrispondono a tre periodi diversi: il 2000, il 2007 e il 2013. A loro volta corrispondenti a tre testi che ho scritto per cercare di contestualizzare nel modo più efficace, anche dal punto di vista narrativo, quanto accaduto e ancora sta accadendo all'Ilva di Taranto. Il primo testo è la mia opera prima, e mette a fuoco la città. Il secondo un reportage sul ritorno alla politica di Giancarlo Cito. Il terzo racconta dell'ultimo anno e mezzo: un diario civile ragionato. Li ho riuniti per far capire lo sviluppo, dall'inizio. Non l'ho riscritto perché mi piaceva l'idea della stratificazione, mostrare la pluralità dei miei punti di vista in divenire. Volevo insomma scrivere un romanzo di formazione per via civile che fosse anche il racconto soggettivo di quanto è accaduto, testimoniando lo sfascio economico e politico che per ognuno è sintetizzato dal nome Ilva.

La contraddizione tra difesa del lavoro e della salute sembra essere un problema irrisolvibile, a Taranto. Come si sfugge all'ineluttabilità di una contraddizione del genere?
Riscoprendo la complessità della questione. Dobbiamo tenere insieme i due aspetti, cioè non giocandone uno contro l'altro. Io capisco la sfiducia nei confronti di un progetto di riconversione, la furia antipolitica e antisindacale di chi chiede la chiusura punto e basta. Ritengo però che si possa produrre acciaio in maniera diversa, applicando quindi un nuovo piano industriale.

Ce ne potrebbe indicare per sommi capi il profilo?
Prevede un ammodernamento settore per settore degli impianti, la copertura dei parchi minerali e, contestualmente, la possibilità di sperimentare un nuovo ciclo produttivo (per due o tre milioni di tonnellate) che non usi quindi il metodo classico – cocheria, agglomerato, altoforno – bensì il metano e le tecniche adottate per esempio nella fabbrica di Linz.

E in questo modo si riuscirebbe a salvare la fabbrica?
La fabbrica si salva soltanto cambiando il ciclo produttivo. Su questo sono tutti d'accordo.

Un'operazione fattibile?
La trasformazione è tecnicamente possibile, anche se complicata. Il problema è la copertura finanziaria. Finora, dai sequestri compiuti e dal recupero dell'evasione fiscale potremmo in teoria disporre di circa 2 miliardi di euro. Occorrono però nel complesso almeno 4 miliardi. Ma questo non è neppure il problema più grande.

E quale sarebbe, questo grande problema?
Il percorso di risanamento pubblico durerà forse 4 anni. Ma una volta che la fabbrica è risanata chi la gestirebbe? Il gruppo Riva, che l'ha conciata così? E' realistico pensare all'intervento di altri imprenditori? Magari stranieri, russi o indiani, che poi la spacchettino e la facciano fallire bruciando i soldi investiti per il risanamento? Forse bisognerebbe riconsiderare una forma di intervento pubblico, anzi io credo che sia l'unica cosa sensata. E' vero che i soldi non ci sono, ma 3-4 miliardi devono essere comunque investiti. Tanto vale scommettere su una scelta di tipo strategico.

Perché si tratterebbe di una scelta strategica?
Il salvataggio dell'Ilva corrisponderebbe al salvataggio dell'unico polo siderurgico italiano degno di questo nome. L'unico rimasto, fra l'altro. Ecco perché dico che si tratterebbe di un investimento strategico. La mossa del cavallo: salvare l'Ilva per ricostruire una politica siderurgica compatibile con i più elevati standard ecologici. E' ovviamente qualcosa di molto improbabile, ma l'alternativa quale sarebbe? Talvolta anche nei contesti più liberisti possibili non è inutile far sentire la voce dello Stato.

Alessandro Leogrande, tra Giovanni Accardo (sinistra) e Michele Buonerba

 

 

 

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Stefania Squassoni Sun, 12/08/2013 - 18:01

Bellissima intervista! Fatte le dovute proprorzioni, a Trento c'è una situazione analoga, in termini di contenuti: le Acciaierie presenti a Borgo Valsugana, con le stesse problematiche di altissimo inquinamento ambientale e conseguenti gravi danni alla salute dei cittadini, purtroppo già conclamati. Anche a Trento i politici hanno spesso posto il problema in termini di un "aut aut" fra diritto alla salute e diritto al lavoro, ricattando così i cittadini e i lavoratori. Recentemente ho partecipato ad un interessante incontro pubblico "Borgo incontra Taranto", organizzato dall'Associazione Valsuganattiva, con la presenza di un ex operaio dell'Ilva, rappresentante della FIOM. Sono state analizzate in parallelo le due situazioni, cercando di individuare anche una possibile soluzione. L'unica possibile soluzione emersa durante questa serata di approfondimento , è quella prospettata da Alessandro Leogrande in questa intervista, una nazionalizzazione della fabbrica operante in un settore strategico.
Un recente articolo riguardante il problema in Trentino è qui:
http://www.lavalsugana.it/home/le-cronache/6683/diamo-un-taglio-al-rica…

Sun, 12/08/2013 - 18:01 Permalink