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L'anarchia delle api

Sessantottino, seguace di Osho, apicultore, vittorioso nella lotta contro la sua patologia oncologica. Paolo Faccioli ha raccontato la sua storia in un libro emozionante.
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Foto: Facebook

Misfit”, ci dice il dizionario, “is a person who is different from other people and who does not seem to belong in a particular group or situation”. All'inclinazione politica che Paolo Faccioli ha voluto dare al suo libro autobiograficopresentato al Liceo Carducci di Bolzano mercoledì 5 dicembre –, appartiene l'esplicitazione del sottotitolo: “Troppo anarchico per definirmi anarchico”. Si fa però forse troppo presto a dirsi “anarchici”, e adesso si pone infatti il problema di capire cosa voglia dire, oggi (ma anche ieri, e magari in futuro), esserlo davvero. Di primo acchito, senza consultare dizionari politici o ricorrere ai primi articoli reperiti in rete, tenderemmo ad attribuire a questa parola significati negativi, afferenti alla sfera del disordine, se non addirittura del crimine. Il riflesso condizionato della stampa ne segnala spesso l'occorrenza. Basta che esploda un ordigno, o ci sia uno scontro di piazza, subito si parlerà della “pista anarchica” o di gruppi “anarco-insurrezionalisti”. Leggendo però le pagine del libro di Faccioli, l'anarchismo torna qui a riappropriarsi di un suo senso più basilare ed archetipico, ma anche più umile e mite, fatto di ricerca, d'insoddisfazione nei confronti delle incrostazioni e delle camice di forza che persino l'anarchia con la A maiuscola (quella cerchiata) finisce con l'allacciarti addosso se non sottoposta ad autocritica.

Anarchico '68

Mentre parla non riesce proprio a stare seduto, Faccioli. Ha un modo sognante di rivolgersi al pubblico, ma l'esile voce è sostenuta da una convinzione intima che diventa immediatamente anche convincente per chi lo ascolta. La sua esposizione – punteggiata dagli interventi e le sollecitazioni di Giovanni Accardo – ripercorre un itinerario esistenziale che costituisce la spina dorsale del libro. Esordio bolzanino di un liceale inquieto (“allora – racconta – il liceo classico era in piazza dei Domenicani”) e precocemente attirato dai centri più grandi, nei quali l'elaborazione ideale ha il sapore dei boulevard alberati di Parigi e poi di quelli in bianco e nero di Milano, città industriale, dove per l'appunto “la fiaccola dell'anarchia” risplende nelle notti plumbee di un Sessantotto già incupito. Ma non è sulle reminiscenze degli interrogatori violenti ai quali fu sottoposto lo studente di lettere all'università di Pisa negli uffici della questura in cui lavorava il commissario Luigi Calabresi, o sul racconto della sua detenzione (per due anni, senza la benché minima colpevolezza), che Faccioli indugia volentieri. Piuttosto, si sofferma sulla madre, insegnante, che per seguire il ragazzo rinchiuso prese un'aspettativa dal lavoro e si tramutò in curatrice anche di altri carcerati, consapevole attivista (radicale) intenta a denunciare l'inutile incrudelimento degli istituti di pena. Oppure sul padre, del quale rammenta la lezione di chirurgo prudente: “Ricordati che per un medico operare deve restare l'ultima ratio, l'ultima cosa da fare”.

Tra il Vaticano e un Club Méditerranée

Dopo l'uscita dalla prigione, lo spazio della ricerca comincia a volgere lentamente dall'estroversione caratteristica di chi “voleva cambiare il mondo” verso una dimensione di più concentrata progettualità spirituale. È una rotta sulla quale si sono mossi in moltissimi, con un approdo che appare scontato, quasi un cliché: l'India povera e mistica. Faccioli viene attirato nell'orbita del romitaggio creato a Pune da Bhagwan Shree Rajneesh, poi universalmente noto con il nome di Osho. In un'atmosfera a metà “tra il Vaticano e un Club Méditerranée” il ragionamento “anarchico” quasi si perde, soprattutto se ci arrendiamo all'impressione (superficiale?) di una strutturazione dell'esperienza così fortemente aderente alla (o persino dipendente dalla) personalità del “maestro”. Faccioli racconta la sua “iniziazione”, la scoperta della danza (“bisogna che il danzatore smetta di esistere, e si liberi completamente nella danza, diventi danza”), oppure le scene del funerale di Osho narrato con accenti di partecipe cronista. La chiave per il recupero della sua motivazione “anarchica” viene ritrovata mediante una riflessione sul concetto di potere, decostruito grazie a mirate pratiche orientate a sciogliere i molteplici condizionamenti che legano le persone fra loro e a tutto ciò che non è essenziale.

La scoperta dell'apicultura

La scoperta dell'apicultura, avvenuta in Toscana, in una Comune che all'inizio degli anni Ottanta ospita Faccioli assieme ad altri “reduci indiani”, è l'ultima tappa del suo percorso, nel quale si condensano tracce più remote, gli indimenticabili giorni d'infanzia trascorsi coi nonni in campagna, vicino al lago di Garda, ma anche un concreto guardare in avanti, verso il recupero della terra, di un ambientalismo come orizzonte al contempo pre-politico e post-politico. Il pensiero anarchico in questo caso si fa progressiva contestazione dell'impianto zootecnico, obbediente ad un mero principio di sfruttamento della natura: “L'attenzione che prima privilegiava la riuscita tecnica dell'operazione (magari insieme al piacere fisico di manipolare un favo d'api) adesso va a salvaguardare le singole api, a muovermi con una faticosa delicatezza che rallenta i miei ritmi produttivi. Sono diventato un apicultore riluttante”. Ed è divertente immaginarsi il fiorire di una simile riflessione proprio al cospetto di un alveare, la cui vita pare al contrario obbedire ad una sorta d'imperativo naturale, rigidamente strutturato e gerarchicamente ordinato.

Un saggio ribelle

La conclusione del libro è forse la parte più toccante. C'è il ritratto della madre colta nei suoi ultimi mesi (“Essenzializzarsi, smaterializzarsi”), nella rarefazione dei suoi gesti; lo svuotamento del grande appartamento in cui è vissuta la famiglia a Bolzano, anche questo un modo per andare al nocciolo delle cose, perché “niente è veramente importante nella vita se non puoi portarlo con te quando muori”; infine c'è il racconto della malattia, del cancro che colpì anni fa l'autore, circostanza drammatica eppure anch'essa vissuta non arrendendosi al sapere medico precostituito, alle lacerazioni imposte da cure più nocive del male, ma cercando la via, anzi diverse vie per affermare la propria personalità anche in rapporto al dolore e alla morte (morte per fortuna dilazionata, ma soprattutto non più temuta).

Oggi Faccioli trascorre il suo tempo tra Bolzano e la Toscana. Il verbo “trascorrere”, pensando a lui, risuona di una consapevolezza invidiabile, carico com'è di prove superate, rielaborate, eppure mai trasfigurate in qualcosa di assolutamente definitivo, di troppo fisso, per definizione opposto ad una sempre possibile contestazione. “Un saggio”, si potrebbe quasi dire. Ma lui ne riderebbe, ribellandosi gentilmente al complimento, com'è nel suo stile.