Society | violenza ostetrica

Partorirai con dolore

Nonostante la sua diffusione, si parla ancora troppo poco di violenza ostetrica durante il parto. Intervista a Valentina Poligamia, autrice di un libro sull'argomento.
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Foto: (c) unsplash

Se da qualche anno il tema della violenza ostetrica ha iniziato ad attirare l’attenzione del pubblico, bisogna purtroppo riconoscere che spesso si tratta di timidi tentativi e di piccoli passi, per un fenomeno molto diffuso ma non ancora sufficientemente indagato, perfino la letteratura scientifica sembra occuparsene marginalmente e il panorama italiano non fa eccezione. In questo clima fa quindi notizia la decisione di una studentessa di filosofia, Valentina Poligamia, di discutere la sua tesi proprio su questo argomento. La tesi, dal titolo “Il parto tra medicalizzazione e violenza ostetrica”  sta per diventare un libro, che uscirà  in primavera per la casa editrice di Rovereto NEW-BOOK Edizioni, e intende raccontare il fenomeno in modo agevole, ma allo stesso tempo ben ancorato ad una base di dati e dimostrazioni scientifiche.

Salto.bz: Dottoressa Poligamia, com’è nato l’interesse per il tema della violenza ostetrica e la decisione di scrivere su questo argomento? 

Valentina Poligamia: Ho da sempre avuto un interesse per l’antropologia e negli anni mi sono avvicinata all’antropologia medica. Poi, durante un corso in una scuola Montessori, mi sono imbattuta in un manuale di diverse autrici che riguardava il pensiero alla base della tematica del parto e della nascita: queste autrici, ginecologhe, ostetriche e professioniste sanitarie si interrogavano sulla filosofia del parto e su come questa sia cambiata nel tempo. Oggi infatti si è arrivati ad una radicale medicalizzazione di un evento naturale, quasi a trattarlo come una patologia, invece di considerarlo un evento fisiologico.

 

 

La medicina quindi è influenzata anche da fattori esterni alla scienza? 

Esattamente, l’antropologia medica si occupa proprio della dimensione sociale della malattia. Siamo abituati a pensare alla medicina come ancorata solamente a dati puri, e sicuramente i dati e gli studi scientifici sono fondamentali per questa branca del sapere, ma ci sono poi diversi fattori che nel tempo hanno influito sul rapporto con la malattia, le basi culturali e sociali hanno un peso importante nel definire cosa sia normale e cosa sia fuori dall’ordinario. Forse uno degli esempi in cui queste influenze sono più evidenti è nella psichiatria: basti pensare ai vari disturbi che sono stati inclusi o depennati dalla lista delle malattie psichiatriche nel corso degli anni. 

E quindi anche il modo di trattare il parto è cambiato nel tempo, con il cambiamento della società? 

Si è iniziato progressivamente a considerare la gravidanza e il parto come una questione squisitamente medica, invece di pensare ad un approccio più olistico. Questo ha avuto ripercussioni importanti sulle modalità che ancora oggi vengono adottate quando si deve far nascere un bambino. C’è poi anche un discorso di discriminazione di genere e paternalismo medico: è normale affidarsi agli specialisti, soprattutto in casi di particolare difficoltà come può essere quello del parto, ma le donne hanno sempre dovuto subire imposizioni e direttive altrui e il parto non fa eccezione. Come ho potuto constatare anche nelle mie ricerche, spesso si tende ad ascoltare poco le donne nei frangenti della nascita e dell’allattamento, nonostante loro conoscano il proprio corpo meglio di chiunque altro. 

Volevo che fosse una testimonianza forte, da non poter liquidare come un problema di isterismo collettivo femminile. Si assiste infatti alla demolizione degli argomenti delle vittime, spesso ridotti a semplici lamentele di donne troppo sensibili

Nel libro sono incluse anche le esperienze delle madri vittime di violenza? 

Per le mie ricerche sono partita dalle testimonianze della campagna social BASTATACERE, ne ho lette moltissime, accanto a quella delle madri c’erano anche le voci del personale sanitario: ostetriche e ginecologhe che parlavano di esperienze alle quali avevano assistito. I racconti delle professioniste sono stati particolarmente preziosi, perché hanno supportato le voci delle madri, ad un certo punto della campagna infatti è iniziato il triste, ma ben noto fenomeno di colpevolizzazione delle vittime, che ovviamente non tentava solo di svilire e minimizzare il dolore delle mamme, ma anche l’entità del problema. 

Il libro però è accompagnato anche da molti dati che si rifanno ad evidenze scientifiche…

Ho voluto includere molti dati, da un lato perché si trattava di un lavoro scientifico, che doveva essere supportato da una ricerca importante, ma dall’altro volevo che fosse una testimonianza forte, da non poter liquidare come un problema di isterismo collettivo femminile. Si assiste infatti alla demolizione degli argomenti delle vittime, spesso ridotti a semplici lamentele di donne troppo sensibili. 

Si è trattato di una ricerca difficile? 

É stato un lavoro complesso, ho dovuto reperire molti materiali su riviste scientifiche, quasi sempre in altre lingue, perché in Italia non esistono libri che approfondiscano in maniera organica l’argomento. Devo dire però che in generale non esistono monografie esaustive ed è un tema poco approfondito.

Si è sempre cercato di ridurre il disagio materno, da un lato raccontando che se il bambino è sano e la madre non ha subito danni fisici gravi alla fine tutto è andato bene, dall’altro colpevolizzando le donne, costruendo un ideale di maternità inarrivabile, secondo il quale tutti i disturbi e le sofferenze devono essere messi a tacere dall’arrivo del figlio. In questo clima le mamme che osano lamentarsi vengono trattate come delle madri incapaci

Come mai il fenomeno della violenza ostetrica è così poco indagato?

Si tratta di un fenomeno ancora molto sottostimato, spesso perché anche le vittime non ne sono consapevoli e non riescono ad associare il loro dolore e il loro trauma agli elementi che contraddistinguono la violenza. Si è sempre cercato di ridurre il disagio materno, da un lato raccontando che se il bambino è sano e la madre non ha subito danni fisici gravi alla fine tutto è andato bene, dall’altro colpevolizzando le donne, costruendo un ideale di maternità inarrivabile, secondo il quale tutti i disturbi e le sofferenze devono essere messi a tacere dall’arrivo del figlio. In questo clima le mamme che osano lamentarsi vengono trattate come delle madri incapaci. Resta poi il fatto che non abbiamo ancora un modo univoco per definire la violenza ostetrica.

C’è  quindi un problema di definizione e di metodo? 

Purtroppo ancora oggi non ci si è accordati su una definizione generale, nonostante ci siano stati dei tentativi dell’OMS e anche delle risoluzioni del Parlamento Europeo. Nel 2007 il Venezuela ne ha delimitato i contorni nella Ley Orgánica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia e da questa si è iniziato ad indagare il fenomeno, ma il problema di una definizione univoca si ripercuote sui questionari e sulle ricerche effettuate per comprenderne la portata. Capita che le domande siano confuse e non riescano a cogliere bene tutti i trattamenti degradanti e le violazioni a cui le donne sono sottoposte. 

Le indagini possono essere rese più difficili anche per l’atteggiamento dei professionisti sanitari? 

Purtroppo sembra non essersi creato un clima di collaborazione. All’uscita del sondaggio di OVOItalia (Osservatorio sulla violenza ostetrica Italia) c’è stata una presa di posizione degli ordini dei ginecologi ed ostetrici che si lamentavano dell’uso improprio del termine Violenza Ostetrica e della possibile lesione della loro professionalità. Più tardi hanno affermato che si tratterebbe comunque di casi isolati, ma la violenza ostetrica, come altri tipi di violenza, fa parte della violenza di genere sulle donne, ed è un fattore sociale e culturale, che non riguarda solo la professionalità degli operatori sanitari.

In Italia siamo ancora alle prime fasi, ma nel resto d’Europa o negli USA c’è maggiore  interesse e attenzione verso questo fenomeno?

É difficile dare una visione completa del panorama europeo o americano, ci si può affidare ad alcuni numeri e dati che sono delle spie importanti: come nel caso della quantità di parti cesarei, che dovrebbero essere praticati solo in alcuni casi, ma che in alcune regioni italiane sono diventati quasi una routine, mentre tendono a diminuire di molto nei paesi scandinavi, o del numero di episiotomie, procedure fortemente sconsigliate dall’OMS che in Scandinavia hanno percentuali molto basse ma che in altri Stati toccano vette preoccupanti. In Nord America e in America Latina il tema è più sentito, ma in generale è ancora poco conosciuto al pubblico più vasto. Per far sì che la violenza ostetrica diminuisca occorre aumentare la consapevolezza generale e l’attenzione verso questo problema e con il mio libro spero di andare verso questa direzione.