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“Le divoratrici”: corpi in libertà

Assecondare i propri desideri e fare degli eccessi una forma di liberazione: come il Supper Club combatte le forme più subdole del patriarcato.
Le divoratrici
Foto: Blackie Edizioni

Corpo come spazio da abitare; corpo come spazio che occupa, ingombra; corpo come involucro di fragilità, scoperte, rivendicazioni: ne “Le divoratrici”, romanzo d’esordio di Lara Williams uscito in Italia per Blackie Edizioni nel 2020, è il corpo a dare voce alla protagonista. In un continuo alternarsi tra il passato della vita universitaria e il presente della vita da adulta, Williams racconta in prima persona la storia di Roberta, una ragazza prima e donna poi alle prese con un costante senso di inadeguatezza e alla perenne ricerca di un proprio posto nel mondo. Cresciuta in compagnia della madre e della zia, Roberta trascorre l’università a rifugiarsi nella sua camera di una casa condivisa, incapace a farsi amici, e con la tendenza a placare un senso di solitudine alienante attraverso relazioni poco sane come quella con Arnold, un professore molto più grande di lei distaccato e noncurante. Questa vulnerabilità, che talvolta sembra assumere le forme dell’inettitudine alla vita, si traduce in un rapporto con il cibo fatto di astinenze che portano a una magrezza estrema, a una fame non solo di cibo ma anche di affetto: “Quando guardavo programmi sul cannibalismo, quando leggevo orribili storie di amanti divorati o casi di persone in cerca su internet di qualcuno disposto a mangiarle, mi dicevo: vi capisco. La mia intera esistenza esprimeva gli impulsi contrastanti della fame: un desiderio di consumare, ma anche di essere consumata”.

Il club segreto riunisce periodicamente un gruppo di donne che, occupando luoghi e cucinando scarti trovati nei cassonetti delle immondizie, mangia, beve, si droga, balla per notti intere.

Il concetto che lega “l’essere consumata” con “l’essere amata” fa tornare alla mente la citazione del filosofo coreano Byung-Chul Han per cui “l’altro, che è stato privato della sua alterità non può essere amato ma solo consumato”. Nel caso della protagonista di “Le divoratrici” l’esigenza di essere consumata coincide anche con quella di essere vista e considerata, riconoscimento, quest’ultimo, che passa attraverso la fedeltà a un canone fisico dominante che fa sì che la sottigliezza corporea sia direttamente proporzionale all’attenzione rivolta dalla società a una persona. Roberta, in grado di reagire al suo stato di isolamento solo elemosinando attenzioni che non riceve perché all’apparenza priva di personalità, prova a definirsi esclusivamente in relazione a qualcosa o qualcuno fuori da sé: se dal professore universitario anaffettivo cerca una qualche forma di appartenenza, nel cucinare piatti che non mangia trova il modo per passare in tempo, per sopravvivere alla solitudine della sua esistenza.

 

La sua quotidianità senza aspirazioni, che prosegue nell’età adulta con un lavoro ripetitivo per un sito di moda dove compila schede di descrizioni di prodotti, viene interrotta dall’arrivo di Stevie, un’aspirante artista che affianca Roberta come tirocinante. La loro amicizia assume i tratti della sorellanza: Stevie fa accedere Roberta a una realtà che la fa sentire accolta e le permette di soddisfare i propri desideri e assecondare il proprio sentire. Dopo essere andate a vivere insieme, Roberta e Stevie – il suo Altro, colei che le ha restituito un’alterità – decidono di fondare il Supper Club. Il club segreto riunisce periodicamente un gruppo di donne che, occupando luoghi e cucinando scarti trovati nei cassonetti delle immondizie, mangia, beve, si droga, balla per notti intere. Il Supper Club è un’opera d’arte vivente, dove la tela sono gli stessi corpi delle partecipanti che con il trascorrere delle settimane diventano sempre più grossi: “Volevamo espanderci ed essere sfamate; volevamo sapere cosa si provava. A sentirsi piene come un uovo, anziché avide e fameliche tutto il tempo”. Nella sua azione di riappropriazione di spazi collettivi e individuali, il gruppo restituisce dignità agli avanzi di cibo che diventano gli ingredienti principali di intere portate, alla carne che fa crescere il corpo, a quei comportamenti che si scontrano con il gusto dell’uomo. In aperto contrasto con una società i cui costumi legati al corpo delle donne convergono nella triade bellezza-pudore-morale, le serate del Supper Club sono un inno all’eccesso, perché “Niente fa più paura di una donna che mangia e scopa con abbandono”.

Anni di patriarcato hanno fatto sì che alcuni comportamenti venissero introiettati come propri delle donne: la propensione alla cura, il senso di responsabilità, la tendenza a mettere i propri bisogni dopo quelli del compagno-del padre-della famiglia.

Se quello che può essere definito il “disciplinamento delle condotte” vuole che le donne incarnino specifiche pratiche di femminilità virtuosa e sottomessa riflessa in fisici piccoli, minuti, Roberta e le altre scelgono di essere presenti al mondo con il proprio corpo che diventa uno strumento fondamentale di percezione dell’ambiente circostante: “Avevo messo su quasi quindici chili dall’inizio del Supper Club. Quando andavo a camminare le mie cosce si toccavano e con il caldo dovevo indossare fasce o unguenti anti-sfregamento. A volte mi sentivo più grande anche la testa, come se la mia calotta cranica si fosse gonfiata. Pensavo che essere grossa sarebbe stato faticoso – trascinare quel nuovo peso lungo le mie giornate –, invece mi sentivo più solida, non più alla deriva o a rischio di volare via. È incredibile diventare grossa, da piccola che eri, per scelta. Essere ancora in grado di crescere, quando sei vicina ai trent’anni”.
La scelta alla quale si riferisce Roberta non mostra i tratti del diritto faticosamente conquistato di decidere singolarmente cosa fare del proprio corpo, ma pone l’accento sulla difficoltà di stare nelle sue forme corporee. Quelle che potrebbero sembrare autonome decisioni si dimostrano essere espressioni di dominazione: sebbene meno esplicito rispetto ad altre operazioni fatte ai danni del corpo femminile, diffondere un immaginario che mette “a norma” fisici denutriti per renderli socializzabili, adatti e conformi a un certo contesto culturale è altrettanto violento. Anni di patriarcato hanno fatto sì che alcuni comportamenti venissero introiettati come propri delle donne: la propensione alla cura, il senso di responsabilità, la tendenza a mettere i propri bisogni dopo quelli del compagno-del padre-della famiglia. Roberta, il giorno del suo trentesimo compleanno in occasione dell’ultimo Supper Club, si libera da ogni forma di controllo confessando lo stupro subito all’università e mettendo la sua persona al centro di tutto: “Sentii il mio peso affondare nel tappeto. Riflettei sul fatto che non avevo altri pesi da portare, che del mio peso, e di quello soltanto, dovevo sentirmi responsabile. La sola cosa che ero tenuta a portarmi appresso nella vita ero io. Avrei voluto saperlo prima”.