Bentornati a teatro
È in forma Paolo Rossi che nel tardo pomeriggio di mercoledì 11 giugno ha calcato per primo in Italia – dopo la lunga interruzione dovuta all’emergenza Covid-19 – nuovamente l’amato palcoscenico, lui che quasi ci vive, in teatro, recitando in tempi normali – a suo dire - attorno alle 285 serate nel giro di un anno. Rimanere fermo tutto questo tempo è stata dura, ha detto subito all’inizio al “numeroso” pubblico in sala, che a dovuta distanza di tre posti in tre posti con sempre una fila vuota in mezzo, ammontava a una quarantina persone. Eccezionalmente, dicono gli organizzatori perché era la “prima” della prima prova aperta del nuovo spettacolo in elaborazione – per l’appunto – al Teatro Stabile di Bolzano che lo coproduce: Pane o libertà – Su la testa. Nelle prove successive (fino al 20 giugno, su prenotazione via mail o per telefono) il numero è rigorosamente fissato a un massimo di venti partecipanti.
Era già stato in programma della stagione 2019/20 il progetto di preparare un nuovo spettacolo da far debuttare al Piccolo di Milano grazie al collaudato format Wordbox già sperimentato con altri attori e che prevede il fatto di far provare un testo in presenza del pubblico. Certo, nessuno aveva pensato che sarebbe diventata la forma di spettacolo che avrebbe potuto dare il via a una nuova stagione e – forse – a nuove modalità, proprio grazie alle sue dimensioni ridotte dal punto di vista scenico. Lo stesso Rossi ha affermato che una interruzione inaspettata può essere sempre dietro l’angolo, che sia per una pandemia o per censura o per malattia. L’importante è riprendere e considerare un’opportunità ciò che di primo acchito può sembrare un freno.
All’arrivo in scena, lui, e i tre musicisti del gruppo che lo accompagna in questa nuova avventura, si sono piazzati anche loro a debita distanza tra di loro sul palco. E al “mi sento solo” gridato da Stefano Bembi, seduto sul lato destro con la sua fisarmonica in mano, il mattatore dalla lunga carriera tra night e stadi enormi, piazze vuote e teatri affollati – come lui stesso ha affermato – risponde un ironico “Sei ben illuminato, però, sembri quasi Marina Abramovich!”.
Le battute sono spontanee, a volte secche, ma sempre colme di sapere e di conoscenza cultural-artistico-teatrale, tanto da aprire enormi finestre sulla storia del Grande teatro a partire da quel piccolo monologo recitato e cantato, ma soprattutto assolutamente improvvisato. Come ci confida alla fine, quella era la primissima prova e pure lui, da rodato attore comico qual è avendo calpestato il pavimento in legno dei palchi per anni e anni (aveva debuttato agli inizi di Tangentopoli a Milano), si era sentito tremare le gambe dall’emozione.
Come sarà questo spettacolo? Certo, quello in programma sarebbe stato tutt’altro, e di certo dopo una pandemia simile non si può far finta di nulla. Bisogna pur ricominciare, ma - per carità! - non con testi che si rifanno a La peste di Camus! Rossi suppone che per quel tipo di spettacolo dal vivo, che forse sarebbe meglio chiamare “spettacolo da morto”, i cartelloni della prossima stagione abbonderanno di Decameroni vari o di Colonne infami, mentre a Milano non si faranno mancare nuove edizioni dei Promessi sposi o dell’Edipo. Ovunque in questi si parla della peste, ma lui vuole fare un “teatro di rianimazione” alla faccia dei surrogati dello spettacolo dal vivo proposti da tanti teatri in sua vece. Perché il teatro è vita, una serata in teatro è irripetibile (infatti l’assessore alla cultura del comune di Bolzano, Juri Andriollo, nella presentazione che ha preceduto la prova aperta, ha toccato come prima cosa il palco, proprio per segnalare l’importanza di quella sensazione tattile, quella percezione sensuale, per creare la metafora del vivere una serata in teatro, a suo avviso “la” ricetta per tornare a vivere dopo il silenzio culturale, durato troppo a lungo, con il teatro, la letteratura, la musica, la lirica, eccetera).
Paolo Rossi è ottimista e inventivo: anche qui non nega la possibilità di forme di spettacolo dal vivo mandate o interconnesse in rete, esistendo di quelle forme numerose variabili, così una cena dopo lo spettacolo può risultare a volte molto più drammaturgica dello stesso andato in scena poco prima sul palco, oppure un mimo sulla base di piste audio registrate in playback può interpretare a gesti e mimesi un intero spettacolo. A questo proposito narra la sua esperienza in Cina, dove il suo gramelot italiano, inventato sulle tracce del maestro Dario Fo, l’ha fatto dire al microfono a un cinese, mimando lui il tutto in primo piano sul palco. Appunto.
Un teatro di rianimazione dopo il lungo letargo, quindi, che a suon di musica sulle orme di Nino Rota annuncia subito dopo un tipico momento di uno spettacolo da mimo: il coinvolgimento del pubblico. Lo fa alzare in piedi per far eseguire alcuni esercizi di “sginnastica”, all’insegna de “il virus che si è perso” e del fatto che “ormai siamo tutti asintomatici”. I tre musicisti – Emanuele Dell’Aquila, basso e percussioni, Alex Orciari, al contrabbasso e il già citato Stefano Bembi alla fisarmonica – non sempre si trovano d’accordo, né tra di loro, tanto meno con lui, l’attore, ma – come ripete più volte – “è una prova…” e parla dei suoi Ancièns Prodiges come “la prima orchestra parlante e litigante”.
Bentornati a casa, avevano augurato Andriollo (cultura del comune) e Giuliano Vettorato (cultura della provincia), nonché il sindaco Renzo Caramaschi e il direttore del teatro, Walter Zambaldi. Paolo Rossi non se lo fa dir due volte, assaporando un po’ alla volta l’approccio, dapprima un po’ timido e poi sempre più sciolto, alla scena - quella scena che conosce a menadito avendo fatto esperienza con Giorgio Strehler e Dario Fo, ma anche alla Scala per un Pipistrello di Strauss. E racconta aneddoti di vita vissuta dietro le quinte, da come prendere i ringraziamenti a fine spettacolo fino a come elaborare brani rubati da grandi autori. Rubati, sì, perché “rubare è geniale, copiare è da coglioni” gli aveva insegnato Fo tanti anni prima, non rivelando però che lui stesso quella frase l’aveva rubata a Picasso. E chissà, se il grande pittore del Novecento l’aveva già rubata a qualcun altro?
In tempi di crisi, quindi, se non ci si vuole abbassare ai vari testi contenenti scene di pandemie varie, bisogna reinventarsi. Lui, che in tempi non sospetti aveva già preso di mira Berlusconi all’epoca in cui era stato ancora un semplice imprenditore, prevedendo certi risvolti poi avvenuti nella realtà, si era considerato una Cassandra. Così come, ben prima del Covid aveva previsto uno spettacolo sulla discriminazione della cultura in cui si era “chiusi” a teatro. A volte gli intellettuali e gli artisti si rivelano essere delle Cassandre, ma ora, che gli intellettuali non parlano e tutte le Cassandre sono mute, cosa fare? Così ha ripensato alla figura dell’Arlecchino, ma non quello di Strehler, bensì all’Harléquin originale, a quel personaggio che faceva da tramite tra l’aldiqua e l’aldilà, e il cui bernoccolo sulla fronte di fatto era un corno spezzato, indice di un essere un po’ infernale… Un riferimento, questo, non unicamente tattico ma al contempo un’altra fonte di ispirazione: Le rane di Aristofane, in cui il quesito base gira attorno a chi riportare dall’aldilà: Euripide o Sofocle? Paolo Rossi non vuole fare cernite, ma una sorta di lavoro memorial-culturale per portare nell’aldiqua del suo spettacolo e richiamare alla nostra memoria tutti i personaggi con cui aveva lavorato, da Enzo Iannacci, Strehler e Fo, fino a Giorgio Gaber e Francesco De André, non dimenticando i tanti amici comici che avevano debuttato al Derby, il locale simbolo della grande comicità italiana.
Inventando al contempo un “format” elastico, da proporre al chiuso nei teatri e all’aperto nei cortili e nei chiostri, o girando con i camion, usando inoltre – perché no? - la cosiddetta “interzona” tra il reale e il digitale. Per usare le nuove tecnologie non soltanto per riproporre registrazioni di vecchi spettacoli, ma per creare qualcosa di innovativo. Far vedere ciò che dal vivo non si vede mai. Come le stesse “Prove aperte” proposte in questi quindici giorni, testi non messinscena ma “messi in prova”, in quanto da sempre per uno come lui è il percorso di elaborazione a essere intrigante e artistico e un po’ meno il risultato finale. Ed è per questo che ogni replica è unica e irripetibile.
Per rinnovare si va sempre a pescare nell’antico, e per elaborare questo Pane o libertà si torna indietro nella commedia dell’arte, dove i saltimbanchi sulla traccia di spettacoli creavano serate sceniche uniche. Così, qui i musicisti recitano e lui suona, o viceversa. Un po’ di dramma e un po’ di comicità, come nelle migliori pièce di Shakespeare, il vero teatro popolare.
Molti dicono che nulla sarà più come prima. Secondo Paolo Rossi non bisogna interrogarsi se uno spettacolo non sia come “prima” del virus, quanto chiedersi, se il pubblico sarà ancora quello di “prima”?