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La differenza la fa la buona informazione

Massimiliano Bonacchi, ordinario di Economia aziendale ad Unibz, spiega come il sodalizio tra accounting e nuove realtà d'impresa rappresenti un beneficio per le aziende.
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“L’accounting è morto, lunga vita all’accounting”. Ovvero: quali sono le difficoltà che incontra oggi la disciplina e come è possibile fare ancora la differenza producendo buone informazioni. Questa l’essenza della lezione inaugurale tenuta lo scorso 30 giugno da Massimiliano Bonacchi, dall’anno accademico 2015/2016 docente ordinario di Economia aziendale all’Unibz. “Accounting vuol dire informazione per le persone che si trovano all’interno, come ad esempio i manager, e al di fuori dell’impresa, vale a dire le banche o gli investitori. L’idea della mia lezione inaugurale è quella di provare a criticare l’approccio tradizionale, che guarda solo a misure economico-finanziarie: questo perché nelle aziende del ventunesimo secolo il capitale era tangibile, cioè si misurava in impianti o macchinari ad esempio. Nelle aziende di oggi, però, è impensabile applicare lo stesso ragionamento: pensiamo ad esempio - precisa Bonacchi - ad aziende come Google o Facebook, dove il capitale è nelle idee, nelle persone. L’accounting, insomma, ha avuto dei problemi a misurare i cosiddetti intangibili, più in generale ha incontrato delle difficoltà nel descrivere la realtà evoluta delle imprese. Del resto, se ci pensiamo, la disciplina è nata nel 1494, da uomini del Rinascimento. Oltretutto, l’accounting è anche informazione sulle imprese, e se le imprese cambiano anche le informazioni e le modalità di diffusione di esse devono cambiare”. Soprattutto, la produzione di buone informazioni porta vantaggio competitivo alle aziende: “Una buona reportistica aziendale dovrebbe fornire le informazioni sulle attività dell’impresa ai manager e agli stakeholders per aiutarli ad assumere le giuste decisione economiche”, aggiunge. 

Altro ruolo fondamentale: quello degli stakeholders. “Le imprese, per sopravvivere nel lungo periodo, non possono pensare solo a fare utili: se si tralasciano aspetti come ad esempio la tutela dell’ambiente, o la cura del cliente, gli effetti sono poi disastrosi. È sempre più importante non solo creare valore per l’azionista ma anche per gli stakeholders,  Anche questo è un tema nuovo, a cui l’accounting deve dare una risposta. Queste sono le due sfide che ho voluto mettere al centro della mia lezione inaugurale, dove ho illustrato anche dei miei lavori sul tema”. 

Bonacchi vanta un curriculum ricchissimo: in unibz insegna Financial Statement Analysis, Introduction to Accounting, Management Accounting and Control e Principi contabili italiani nel corso di laurea in Economia e Management e nel dottorato di ricerca in Management and Economics on Organizational and Institutional Outliers. In precedenza, è stato professore associato alla Università Parthenope di Napoli e ricercatore all’Università di Firenze. Dal 2012 al 2016 è stato visiting professor alla New York University Stern School of Business e, dal 2009 al 2012, visiting professor al Baruch College della City University of New York. Suoi articoli sono stati pubblicati su riviste internazionali come Contemporary Accounting Research, Business Strategy and the Environment, Management Accounting Quarterly, Strategic Change o Studies in Managerial and Financial Accounting.

Uno dei suoi più grandi ambiti di interesse, però, riguarda il mondo della moda. “Nel corso della mia carriera ho collaborato con diverse aziende della moda, principalmente in due ambiti. Il primo - spiega Bonacchi - riguarda la misurazione delle performance. Le case di moda, infatti, hanno un metro di misura che è la collezione, che però non ha niente a che vedere con l’anno solare, quindi bisogna considerare in realtà due tipi di performance: l’anno e la collezione. Questo rappresenta un’enorme complessità che bisogna saper analizzare. Un altro ambito è quella della ricerca e sviluppo: le aziende italiane, infatti, su questo lavorano molto, però non si fa tanto innovazione di processo ma di prodotto, che è un tipo di innovazione difficilmente catturabile dalle statistiche. Bisogna quindi capire lo sforzo che viene fatto in termini di investimenti nelle collezioni e nel campionario. Proprio per questo, ho messo a punto una reportistica fatta appositamente. Un altro tema sul quale ho lavorato è la responsabilità sociale e d’impresa: le imprese della moda sono molto attente alla responsabilità sociale, ad esempio Gucci è stata una delle prime aziende con un manager apposito. Con lui ho scritto un lavoro sull’R&S proprio in questo ambito. Avere tutte queste certificazioni è sicuramente costoso, ma diventa una specie di assicurazione sulla reputazione. Un esempio pratico: quando c’è stato lo scandalo Amazzonia sollevato da Greenpeace, tra le aziende coinvolte c’erano quasi tutti i marchi italiani, tranne Gucci. Questo perché la casa di moda aveva già messo a punto dei processi di certificazione dei fornitori. Gucci, infatti, ha aperto le porte a Greenpeace, a differenze di altri marchi. È stato, insomma, un approccio diverso, che oggi come oggi conta perché se lei vuole spendere 1000 euro per una borsa deve sapere che quel capo è stato prodotto in un certo modo rispettando alcuni standard etici”.