Animali selvatici
***½
Convivenza tra diversi gruppi linguistici, lupi e orsi. Suona famigliare? Sbagliato. Siamo in Transilvania ed è qui che è ambientato Animali Selvatici (titolo originale: R.M.N., nel senso di risonanza magnetica nucleare, a suggerire ciò che ribolle sotto la superficie), l’ultimo film di uno dei protagonisti della Nouvelle Vague romena, Christian Mungiu, regista di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (4 luni, 3 săptămâni și 2 zile) - vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 2007 - e Oltre le colline (Dupa dealuri).
Cos’è
La storia inizia pochi giorni prima di Natale: Matthias (Marin Grigore), durante una pausa dal suo lavoro in un mattatoio tedesco, viene chiamato “zingaro pigro” da un supervisore e reagisce tirandogli una testata. Per evitare rogne se ne torna in fretta a casa, in autostop, nella sua città natale della Transilvania, dove lo aspetta il figlio di 8 anni Rudi (Mark Blenyesi) e (forse) la sua vecchia fiamma Csilla (Judith State) che gestisce un panificio e sta tentando di trovare sufficiente personale per ottenere i necessari fondi dall’Unione Europea. Nel villaggio la miniera locale ha chiuso, costringendo la maggior parte degli uomini a cercare fortuna altrove.
Non molto tempo dopo il ritorno di Matthias arrivano in città anche tre migranti dallo Sri Lanka, Mahinda (Amitha Jayasinghe), Alick (Gihan Edirisinghe) e Rauff (Nuwan Karunarathna) per essere impiegati nel panificio del villaggio ma vengono accolti dai residenti locali con sospetto e paranoia. Finché, “sorpresa-sorpresa”, le cose non degenerano in una spirale di xenofobia, sciovinismo etnico e violenza.
Com’è
Mungiu è il re degli “slow burn” e questo film conferma la tradizione: Animali selvatici procede a fuoco lento, con il consueto rigore, per sviscerare, stavolta, ostilità e tensioni in un piccolo villaggio multietnico della Transilvania come simbolo dei conflitti in tutto il mondo riguardo chi appartiene di diritto a un luogo e perché. Il regista si addentra, con cupo realismo e tonalità invernali, nei rituali quotidiani della vita comunitaria del villaggio in cui romeni, ungheresi e germanofoni convivono in modo più o meno tranquillo da 30 anni.
Le metafore sugli animali abbondano, le espressioni tossiche di forza maschile pure: nel proiettare le frustrazioni represse degli abitanti del villaggio sui nuovi dipendenti dello Sri Lanka (che Csilla ha assunto perché nessun locale ha risposto agli annunci di lavoro), ma anche nello sforzo di Matthias di plasmare il piccolo Rudi in un modello di virilità: il trucco, dice al figlio, è smettere di provare pietà. “Quelli che provano pietà muoiono per primi”, dice. “Io voglio che tu muoia per ultimo”.
In mezzo gli effetti della globalizzazione sull’Unione Europea con molti ex residenti che sono partiti per trovare lavoro fuori dalla Romania - alcuni di loro, come Matthias, sperimentando sicuramente lo stesso razzismo all’estero. Ma questo poco importa perché i migranti srilankesi diventano un capro espiatorio utile, un nemico comune contro cui unirsi. Nella scena più potente del film - un long-take di 17 minuti con un’unica, ininterrotta inquadratura statica - sceneggiata brillantemente, i litigiosi cittadini si riuniscono per dare libero sfogo a tutto il loro odio bigotto. Peccato per il finale un po’ troppo ambiguo e confuso, con l’ultima scena in cui Mungiu porta al culmine il suo ridondante simbolismo.