Politics | SALTO Gespräch

Quell'accordo senza pace

A trent'anni dagli Accordi di Oslo, la giornalista israeliana Amira Hass discute di colonialismo, resistenze, antisemitismo e violenze nei territori palestinesi occupati.
Amira Hass
Foto: Amira Hass
  • * Disclaimer: Questa intervista è stata realizzata alcuni giorni prima dello scoppio dell’ultima escalation e pertanto non analizza gli eventi più recenti in corso all’interno della regione.
     

    A trent'anni dalla storica stretta di mano tra Rabin e Arafat, che diede vita agli accordi di Oslo, le promesse di pace tra israeliani e palestinesi sembrano definitivamente tramontate. In un contesto in cui Israele ha costantemente sostenuto di perseguire la pace, le azioni dello Stato ebraico hanno rivelato una realtà ben diversa.

    L'acclamata giornalista israeliana Amira Hass, da decenni testimone delle violenze contro i palestinesi nei territori occupati, è intervenuta al Festival di Internazionale a Ferrara gettando luce sulla drammatica situazione all’interno dei territori palestinesi occupati. Hass è conosciuta per il suo lavoro su Haaretz e Internazionale, e offre una prospettiva unica come unica israeliana di religione ebraica a risiedere stabilmente nei territori palestinesi. Nell'intervista che segue, esploreremo il suo punto di vista sulle conseguenze degli accordi di Oslo e sul colonialismo in atto nei territori palestinesi, una realtà che va oltre il concetto di apartheid e che richiede attenzione immediata.

    Salto: Come valuta la natura mutevole della resistenza palestinese nei territori occupati, alla luce del fallimento degli accordi di Oslo e della nascita di nuovi gruppi di resistenza armata? Come si stanno organizzando i palestinesi nell'affrontare l'oppressione israeliana nei territori occupati e l'espansione coloniale degli insediamenti?

    Amira Hass: Ritengo che sia un grave errore associare la resistenza esclusivamente all'uso delle armi. In tal modo, si trascura un vasto contingente di individui, che, in modi non violenti, lottano per resistere all'oppressione. Personalmente, non condivido l'idealizzazione della lotta armata, ritenendo che essa non sia la via più efficace. Quando si menzionano episodi come quelli di Nablus e Jenin, è importante notare che essi rappresentano reazioni alle incursioni israeliane in queste città. Gli attacchi contro israeliani, sia soldati che civili, in Israele o in Cisgiordania, sono condotti solo da una piccola minoranza. Questi attacchi derivano da emozioni scaturite dalla profonda ingiustizia causata dall'oppressione militare israeliana, ma non hanno un impatto significativo sulla politica israeliana, che si concentra sull'espansione coloniale dei coloni. La vera essenza della resistenza emerge nei villaggi che si oppongono ai coloni e nelle persone che protestano pacificamente contro gli insediamenti illegali israeliani. È fondamentale evitare di idealizzare l'uso delle armi come principale strumento di resistenza. Anche se alcuni individui scelgono la via armata, la maggioranza dei palestinesi dubita che questa possa portare a cambiamenti significativi. La resistenza autentica si manifesta nelle azioni quotidiane dei contadini e dei pastori palestinesi che sfidano le misure burocratiche violente israeliane volte a espellerli. Costruire abitazioni in violazione delle norme israeliane o lavorare senza permesso costituiscono forme di resistenza non armata spesso trascurate. Questa è la vera forza della resistenza, anche se non sempre riceve la stessa attenzione dei media. La grande maggioranza dei palestinesi non crede che l'uso delle armi possa cambiare la situazione, ma per comprendere il fenomeno è fondamentale comprendere e le emozioni che ne derivano.

    L'uso delle armi ha davvero contribuito alla lotta contro l'occupazione israeliana e l'espansione coloniale degli insediamenti?


    Ritiene che l'uso della lotta armata possa influire negativamente sulla solidarietà verso la popolazione palestinese, vittima di conclamate violazioni nei territori occupati?

    Gli israeliani continuano ad attaccare i civili palestinesi in modo incessante. Pertanto non si può porre assolutamente la questione su un piano morale perché l'intero quadro dell’occupazione dei territori palestinesi è immorale. In questo contesto, diventa fondamentale esaminare l'efficacia dell'uso delle armi come mezzo di resistenza. La domanda che dobbiamo porci è: l'uso delle armi ha davvero contribuito alla lotta contro l'occupazione israeliana e l'espansione coloniale degli insediamenti? Ha portato più consapevolezza di queste violazioni nel mondo? Ha apportato benefici tangibili ai palestinesi? Mi chiedo fino a che punto la società palestinese stia davvero combattendo contro l'espansione dei coloni israeliani. Le azioni violente, come gli attentati a Tel Aviv, contribuiscono in modo significativo a questa lotta?Personalmente, non condivido l'ideale del martire, ma se una persona è disposta a perdere la vita, e io sostengo che le persone non debbano perderla affatto, se si considera coraggioso e audace chiunque supporti la lotta armata, perché non mostrare lo stesso coraggio proteggendo i villaggi minacciati dai coloni? L'uso che la resistenza palestinese fa delle armi ha un messaggio perlopiù simbolico. Spesso di vendetta per una situazione difficile portata all'esasperazione da parte dell'occupazione. Io sono l'ultima persona a non capire le motivazioni della vendetta, ma in termini di efficienza, di risultati pratici positivi nella lotta contro il colonialismo israeliano, non sembra non avere alcun impatto significativo.

    Come posso accettare che le esperienze della mia famiglia, vittima e sopravvissuta all'Olocausto, vengano strumentalizzate in chiave anti-palestinese?


    La definizione di antisemitismo proposta dall’International Holocaust Remembrance Alliance è stata molto criticata la limitazione della libertà di espressione e critica nei confronti dello Stato di Israele. Qual è la sua opinione in merito e a che punto è il dibattito all’interno delle comunità ebraiche in Europa?


    Devo dire che il dibattito non lo sto seguendo molto perché questa narrazione mi causa un profondo disagio. Ho avuto discussioni approfondite su questo argomento con alcuni amici ebrei sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, a loro volta critici contro questa definizione. Come posso accettare che le esperienze della mia famiglia, vittima e sopravvissuta all'Olocausto, vengano strumentalizzate in chiave anti-palestinese? Questo è profondamente offensivo, ma devo riconoscere che, da un punto di vista politico, questa mossa è stata estremamente astuta da parte di Israele. Non direi sofisticata, ma sicuramente cinica e astuta. Al tempo stesso, gli stati occidentali stanno cascando in pieno dentro questa trappola perché non sanno come affrontare il reale antisemitismo che persiste all’interno delle loro società.
    In ogni caso trovo difficile credere che questa veemenza sia collegata unicamente all'Olocausto e  alla sua memoria. Credo che vi siano anche altre motivazioni, come il ruolo significativo che Israele svolge nelle politiche occidentali attuali e nella struttura capitalistica neoliberale.

    Il suo intervento dal palco di Internazionale si è concentrato sulle conseguenze degli Accordi di Oslo, ma ci sono altri accordi significativi come quelli di Abramo che stanno portando alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e i paesi arabi. Attualmente, c'è un'attenzione particolare sull'Arabia Saudita che sta accelerando questo processo. Quali sono le implicazioni per la popolazione palestinese rispetto a questi sviluppi?

    L’apertura alla normalizzazione con Israele è stata agevolata dagli accordi di Oslo. Allora la comunità imprenditoriale israeliana puntava a una soluzione con i palestinesi per rimuovere le restrizioni imposte dall'occupazione israeliana che ne stava danneggiando lo sviluppo economico. Gli accordi del ‘93 hanno agevolato l'accesso di Israele a nuovi mercati e il miglioramento delle relazioni con l'Europa, che in precedenza aveva imposto a Israele diverse limitazioni a causa dell'occupazione militare dei territori palestinesi. Oslo ha permesso a Israele di mantenere il controllo su quelle terre senza essere percepito come una potenza occupante. Gli accordi di Abramo hanno ulteriormente promosso questo processo, laddove Oslo non è riuscito ad arrivare ovvero. Questa nuova definizione di potere è significativa, e i palestinesi hanno perso parte del loro sostegno nel mondo arabo per varie ragioni, compresi i mutamenti regionali e la questione iraniana. Gli Stati arabi ritengono che non sia più necessario sostenere i palestinesi, ma d’altronde sarebbe da chiedersi perché dovrebbero farlo. Questi paesi sono spesso caratterizzati da strutture di potere oligarchiche che, nonostante le ricchezze, sono tutt’altro che interessate al benessere delle loro popolazioni. Dopo il fallimento e la repressione della Primavera Araba, le oligarchie sono diventate ancor meno inclini a sostenere le aspirazioni della gente.  Gran parte della popolazione dei paesi arabi potrebbe non essere d'accordo con questa normalizzazione con Israele, e la maggioranza potrebbe opporsi. Tuttavia, le oligarchie ritengono che il sostegno israeliano e americano garantisca loro una stabilità politica duratura.

     I palestinesi d’Israele si sentono traditi da parte del cosiddetto centro politico israeliano che qualche anno fa ha votato per la legge nazionale, una norma che istituisce la supremazia ebraica

    Da diversi mesi centinaia di migliaia di cittadini israeliani stanno protestando contro la riforma della giustizia voluta dall’attuale governo di estrema destra. Molti hanno notato l’assenza di manifestanti palestinesi. Cosa c’è alla base di questa mancata partecipazione?

    Quando ci riferiamo alla partecipazione dei palestinesi alle manifestazioni antigovernative ci stiamo riferendo solamente a coloro in possesso di cittadinanza israeliana, e non quelli confinati a Gaza o in Cisgiordania. I palestinesi d’Israele si sentono traditi da parte del cosiddetto centro politico israeliano che qualche anno fa ha votato per la legge nazionale, una norma che istituisce la supremazia ebraica su tutto lo Stato di Israele che è stata sostenuta da molti dei partiti attualmente all'opposizione. Questa legge ha reso i palestinesi cittadini israeliani ancora più alienati e estranei rispetto all'idea di partecipare a queste manifestazioni, una tendenza alimentata dal disinteresse della polizia israeliana nel contrastare la criminalità all'interno delle comunità palestinesi. Pur riconoscendo che l'attuale governo israeliano è molto più pericoloso e ostile nei loro confronti, sentono di non avere una reale influenza sulla politica israeliana. Una domanda che sorge spontanea è perché i manifestanti, nonostante abbiano partecipato a manifestazioni epocali in Israele per nove mesi, non riescono ancora a riconoscere il nesso tra il concetto di democrazia e la realtà in cui Israele non ha mai esteso pieni diritti di cittadinanza alla sua vasta popolazione palestinese? Come possono considerare Israele una vera democrazia quando ha una popolazione così vasta priva di diritti?  È interessante notare che, nonostante il relativamente privilegiato background militare e sociale, i manifestanti stiano progressivamente riconoscendo e criticando la violenza perpetrata dai coloni e il loro ruolo nella revisione giudiziaria. I coloni hanno un interesse diretto nell'indebolire significativamente qualsiasi struttura che potrebbe frenare le loro ambizioni di espansione territoriale, comprese quelle che si trovano all'interno della società secolare israeliana. Tuttavia, la sfida principale risiede nella loro attuale limitata capacità di influenzare le istituzioni politiche israeliane, che stanno subendo un cambiamento significativo con l'incremento della presenza di coloni e sostenitori di destra sia nell'esercito che nelle istituzioni. Questo fenomeno costituisce motivo di preoccupazione nella parte laica della popolazione.