Una città che non c'è

O che nessuno vuol vedere.
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"IL RELITTO DEL SUD CHE OSPITA SOLO I DISPERATI”

Questo è il titolo di uno speciale su Crotone, pubblicato oggi sul Fatto Quotidiano, e che parla dei tanti veleni che la intossicano.  

Crotone è una delle “mie” città. 

Vi ho trascorso gli anni dell’adolescenza e l’ho vissuta da “paesano”. Il termine “paesano” definiva all’epoca (e chissà che non lo definisca anche oggi) lo studente delle superiori che veniva dalla provincia e che dunque doveva essere distinto dal “crotonese” che, invece, era uomo di Città.   Bastava poco, a tredici anni, per convincerti dell’inferiorità della condizione di paesano. A Crotone, infatti, c’erano cose straordinarie: pizzerie al taglio (che emanavano profumi indimenticati ed indimenticabili), gelaterie artigianali, negozi dove fare la Spesa (quella mensile, fatta di quintalate di carne da congelare per i tempi di grossa carestia, o per il ferragosto…) e comprare il Vestito Buono.  

A Crotone, poi, c’era la mia scuola: tutta tempestata di crotonesi! 

I miei compagni di classe parlavano di cose al limite della leggenda metropolitana: partite di tennis, campi da calcio "con l'erbetta”, corsi di Karate e partite di pallanuoto.  

E c’era una zona industriale. Una serie di ciminiere svettavano alte ed incutevano timore a chi, come me, aveva creduto che il forno a legna del vicino di casa fosse la massima frontiera raggiungibile dall’ingegno produttivo.

Mamma Pertusola” era la principale fabbrica presente in quella zona industriale. Era la più grande fabbrica della Calabria e dava lavoro a tante, tante famiglie (il termine “Mamma” nasceva da qui).  

Un mio Professore, all’epoca, ce l’aveva a morte con questa fabbrica: ne diceva peste e corna, accusandola di avvelenare, l’aria, l’acqua, la terra; ma era difficile, per un paesano come me, credere a tutte quelle parole: era la più grande fabbrica della Calabria, costruita in CITTÀ (già, tutta in maiuscolo…), come poteva non essere semplicemente perfetta?

Ho lasciato Crotone nel 1999, dopo aver vissuto l’alluvione del 1996 (frutto esclusivo dell’incuria umana) e dopo aver cominciato a capire che la CITTÀ, in fondo, era una maschera indossata da un paese che aveva bisogno di mostrare una dignità che gli stavano via via erodendo.   Oggi so che quanto scritto nell’articolo del FQ (dal titolo molto crudo, ok,  ma guai a fare i presuntuosi trincerandosi ancora dietro un acritico orgoglio!) è molto vero e fotografa una realtà terribilmente triste, segnata da un abbandono quasi totale.  

Oggi so che la città (non più in maiuscolo, già…) è avvelenata nell’aria, nell’acqua, nella terra e, soprattutto, nel suo tessuto sociale.

Oggi so che il mio Professore aveva ragione, logica, lungimiranza e buon senso.  

Ma per fortuna il mio Professore è ANCORA a Crotone e continua a lottare ed amare la sua città. 

Mi auguro, con tutto il cuore, che riesca ad essere ascoltato da orecchie migliori di quanto non furono le mie cosicché presto, molto presto, io possa tornare a Crotone e sentirmi nuovamente (e stavolta a pieno titolo) “paesano”!