Tra romanzo nazionale e miti identitari
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Nel libro History Education at the Edge of Nation, lo storico Andrea Di Michele - insieme al collega Piero Colla e ad altri autori e autrici - esamina il ruolo che l’insegnamento della storia può svolgere nella costruzione dell’identità collettiva di un popolo o di un territorio e come ciò la renda, spesso, uno strumento, più che una disciplina, da maneggiare con cura. “La questione dell’insegnamento della storia nelle scuole – si legge - è infatti diventata un indicatore delle tensioni e del disagio identitario che emergono nelle società avanzate”. I vari autori passano al setaccio i sistemi scolastici di alcune aree dell’Europa per esaminare il ruolo svolto dall’insegnamento della storia, che, a quanto emerge, può non essere neutrale. Al punto che oggi sembra essere di nuovo attuale una ipotesi sollevata dal Consiglio d’Europa all’indomani della Seconda guerra mondiale, se non sia meglio “abbandonare del tutto l’insegnamento della storia nelle scuole”. Ne abbiamo parlato con Di Michele, professore associato di storia contemporanea alla Facoltà di Scienze della Formazione.
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Andrea Di Michele, qual è il senso di questo volume?
Di Mechele: Da diversi anni esistono ricerche, approfondimenti sul ruolo della storia insegnata a scuola, come un elemento importante nella creazione di identità nazionali e di come, a partire già dall’Ottocento, abbia svolto un ruolo importante di ‘nazionalizzazione’, cioè di creazione di una memoria unificata, di miti, anche storici, fondativi della nazione stessa. Nel caso italiano, pensiamo alla centralità del Risorgimento e delle figure di riferimento del processo di unificazione. Queste ricerche hanno messo in luce come il canone nazionale del racconto storico abbia svolto un ruolo importante. Insieme al mio collega co-curatore del libro, abbiamo ribaltato questo punto di vista, avendo osservato che negli ultimi decenni, a questa narrazione centralistica si siano, in molti casi, o sovrapposti o sostituiti dei percorsi alternativi in una sorta di competizione, soprattutto in determinate realtà che, dal punto di vista geografico, politico, istituzionale abbiamo definito come periferiche. Ad esempio, territori di confine, territori contesi e segnati da passaggi di sovranità, come ad esempio l’Alsazia e l’Alto Adige, dove l’evoluzione del quadro politico istituzionale ha condotto allo svilupparsi di forme di autonomia anche molto ampie come quella locale, con la conseguenza di una devoluzione a livello provinciale e regionale di poteri autonomi anche nella definizione, ad esempio, dei curricula scolastici, nella predisposizione di materiali didattici e di libri di testo. Quindi abbiamo esaminato come in determinati contesti si sviluppino queste narrazioni alternative e quali rapporti abbiano con la narrazione centrale. Basti pensare a quello che sta avvenendo negli ultimi anni nell’Est europeo, ad esempio, al caso russo-ucraino e a quanto il discorso storico sia centrale nel voler affermare il proprio diritto su determinati territori. Da questo punto di vista in molti paesi i programmi scolastici sono stati rivisti proprio con una visione molto nazionalistica.
Nel vostro libro su quali aree geografiche vi siete concentrati?
Ci siamo concentrati in prevalenza sul presente e, in particolare, sull’Europa occidentale, anche per il fatto che, a seguito della dell’unificazione europea, è stata posta l’enfasi sull’Europa delle regioni, per cui questi fenomeni sono maggiormente visibili e di fatto si è andati in una direzione diversa rispetto all’Est europeo. Abbiamo selezionato alcune realtà che ci sembravano significative e non è stato semplice trovare ricercatori e ricercatrici da poter coinvolgere nello studio. Gli approfondimenti riguardano l’Alto Adige-Südtirol, il Lussemburgo, la comunità bosniaca nella Repubblica Serba dopo il conflitto nei Balcani, l’Alsazia, la Val d’Aosta, l’Inghilterra e la Scozia e infine i Sami in Svezia. L’idea sarebbe quella di rilanciare il progetto e di portarlo ancora avanti individuando altre aree assenti: la penisola iberica, segnata da forti movimenti regionalisti in Catalogna e in Galizia; la Francia, con la Corsica. Tutte aree periferiche, di confine, multiculturali e multilingue.
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Ma la storia non ha una sua ragion d’essere di disciplina indipendente? Resta comunque una disciplina ‘strumento’ al servizio di una identità, centrale o periferica che sia?
Questo è un po’ il nodo, perché all’insegnamento della storia, comunque, continua ad affidarsi un ruolo extra-disciplinare: morale? valoriale? identitario? accademico? propedeutico all’educazione civica? Quale sia l’approccio da privilegiare nell’insegnamento della storia è un terreno scivoloso e fonte di “disagio concettuale”.
E in effetti, la crisi di legittimità che colpisce questa materia rappresenta un leitmotiv degli anni Venti del nostro secolo.
Nel 2020, l’istituzione dell’Osservatorio sull’insegnamento della storia in Europa da parte del Consiglio d’Europa è stata una risposta alla difficoltà, a livello europeo, di affermare l’importanza della materia e le temute ripercussioni sulla società: in termini di consapevolezza di sé, di rispetto dell’alterità, di comprensione e di comunicazione tra generazioni. La storia ci aiuta a capire e a ricostruire il passato, a sviluppare il pensiero critico e la capacità di analisi delle fonti e delle informazioni e si fatica a considerarla come una disciplina ‘neutra’.
Quindi non esiste una memoria collettiva unica, esistono tante memorie?
È inevitabile ed è giusto così, nel senso che una memoria, individuale o sociale che sia, fa riferimento al vissuto delle persone di determinati periodi e avvenimenti. È ovvio che persone diverse avranno memorie differenti. L’importante è non assolutizzare la propria prospettiva e avere la capacità di mettersi nei panni dell’altro. La storia dovrebbe aiutarci in questo e dovrebbe servire a comprendere – nel presente - il punto di vista di chi ha una storia personale e familiare differente.
Nel volume due contributi approfondiscono il tema dell’insegnamento della storia nelle scuole di lingua tedesca del Sudtirolo
L’insegnamento della storia è stato spesso terreno fertile per le incomprensioni tra Bolzano e Roma, questo almeno dal 1948 fino al secondo Statuto di autonomia. La narrazione della storia ha un valore altamente identitario e di salvaguardia del carattere nazionale delle giovani generazioni sudtirolesi. Lo ribadisce in diverse occasioni Josef Ferrari, prima guida del neonato sistema scolastico in lingua tedesca.
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Ma lo Statuto di autonomia allora attribuiva alla Provincia di Bolzano una competenza legislativa limitata in fatto di istruzione.
Di fronte a programmi nazionali, mai intesi in senso eccessivamente prescrittivo, gli insegnanti della scuola tedesca potevano prendersi delle libertà significative. Il quadro normativo restava però quello nazionale e la scuola tedesca continuava a dover rispondere al ministero dell’Istruzione, ai suoi controlli e alle sue direttive. Questa situazione, per certi aspetti ibrida, determinava nei fatti una doppia insoddisfazione. Da parte sudtirolese si continuava ad accusare di non disporre di una “scuola tedesca”, ma solo di una “scuola tradotta dall’italiano al tedesco”, come lamentava l’assessore provinciale alla scuola in lingua tedesca, Anton Zelger. Da parte italiana, invece, si accusava i sudtirolesi di aver dato vita a un sistema scolastico parallelo, se non contrapposto, a quello nazionale e di utilizzare in particolare l’insegnamento della storia come strumento di rafforzamento dei più radicati e conservatori miti della patria tirolese.
Se è vero che attraverso la storia nelle scuole tedesche è stata trasmessa un’identità periferica ben definita e alternativa a quella centrale dello Stato, questo non è stato fatto nelle scuole italiane, se non forse marginalmente. Che sia anche la scarsa conoscenza della storia locale ad alimentare un certo sradicamento o il cosiddetto “disagio” degli italiani?
Sostanzialmente gli italiani, rientrando nella nazione italiana, hanno ritrovato a scuola quegli stessi contenuti che avrebbero trovato in altre regioni, contenuti appartenenti al canone nazionale, o al “romanzo” come viene definito. I sudtirolesi avevano il desiderio e la necessità di costruirsene uno proprio, che si è via via distanziato da quello austriaco, tirolese del Nord, creando una storia propria, fatta di punti di riferimento e di personaggi mitizzati come Andreas Hofer.
Cosa succede con il secondo Statuto di autonomia del 1972?
Cresce l’autonomia provinciale anche in ambito scolastico, determinando una chiara separazione delle tre realtà scolastiche, la tedesca, l’italiana e la ladina, ciascuna con una propria Intendenza scolastica. La scuola tedesca si orienta sempre più verso il mondo germanofono, sia nell’utilizzo dei libri di testo, sia nel «ridisegno dell’insegnamento della storia sulla base delle sensibilità culturali e pedagogiche dei Paesi di lingua tedesca e della Germania in primo luogo». Il passo successivo è stato, a partire dalla fine degli anni Settanta, un aumento significativo di pubblicazioni in lingua tedesca, di taglio più o meno divulgativo, dedicate alla storia locale contemporanea. Nel loro taglio interpretativo hanno disegnato un canone coerente e persistente, incentrato sulla rappresentazione di un Tirolo storico unito e idealizzato, sull’oppressione italiana e fascista, sulla lotta eroica del popolo sudtirolese per la sua sopravvivenza durante e dopo il regime. Il tutto sganciato da una più ampia ricostruzione del contesto storico generale. Ricostruzioni nelle quali, tra le altre cose, risultano praticamente assenti le vicende del gruppo linguistico italiano, ma spesso anche la conoscenza della storiografia in lingua italiana. Emblematico è, nel 1992, l’accordo tra Roma e Bolzano in base al quale lo Schulamt ottiene la competenza di definire il titolo del tema di storia per l’esame di maturità nelle scuole superiori tedesche, per cui dal 1992 al 2007 sono soprattutto argomenti di storia locale ad essere prescelti. Tuttavia, quello che accade, è lo spostamento progressivo negli anni del focus dalla storia del “martirio” del Sudtirolo a quello della sua vittoria finale.
La storia, perciò, in Sudtirolo diventa uno strumento importante nella creazione di una nuova identità sub-nazionale, riferita alla piccola patria locale. Negli ultimi anni è stato fatto un grande investimento sull’insegnamento della storia in termini di riconoscimento del percorso autonomista e per la costruzione di una identità capace di “tenere insieme” i diversi gruppi linguistici. Non più una narrazione della storia per contrapposizioni, ma una storia inclusiva.
Si riferisce anche alla realizzazione del manuale di storia locale pensato per le scuole di tutti i gruppi linguistici (Passaggi e prospettive / Übergänge und Perspektiven) e pubblicato negli anni Dieci?
Anche, seppure in realtà mancano degli studi su quanto venga realmente utilizzato. La mia impressione è che sia più un libro di sintesi in tre volumi sulla storia regionale locale, non un manuale in senso proprio. È più uno strumento utile per gli insegnanti che vogliono formarsi sul contesto storico locale per riportare i contenuti nella didattica. Però effettivamente sarebbe utile un’analisi concreta nelle scuole italiane, tedesche e ladine per capire quanto venga utilizzato. Sicuramente l’iniziativa nasce dal desiderio di superare un racconto storico molto identitario e molto separato, così come dimostra anche tutto l’investimento fatto ad esempio sulla questione dell’Autonomia. Il percorso storico sull’autonomia, così come il suo insegnamento nelle scuole, rientra nell’ambito dell’uso che le istituzioni fanno del racconto storico, un uso pubblico, consacrato con la Giornata dell’Autonomia, il 5 settembre, che è la data della firma dell’accordo De Gasperi. È significativo che sia stata istituita a livello provinciale una giornata di celebrazione della Autonomia (2014), poiché sembra rientrare in un progetto di “unificazione” e di avvicinamento delle memorie e delle storie. E in effetti, nel 2021 l’inaugurazione del percorso espositivo sull’autonomia provinciale in piazza Magnago, a Bolzano, cui hanno partecipato l’ex premier Romano Prodi e l’ex presidente austriaco Heinz Fisher, è stato un momento ufficiale molto importante.
Cosa si auspica per il futuro?
Di allargare lo studio e di rilanciarlo per capire se si riesca a costruire un progetto europeo, estendendo le aree da prendere in considerazione. Sono temi importanti, più che altro anche per confrontare i diversi esempi, cercando di capire se vi siano dei “meccanismi” che si ripropongono in maniera simile, delle cronologie e dei momenti di svolta che si sovrappongono e che interessano tutte le aree. Mi sembra un tema importante anche dal punto di vista “civile” per chi vive poi una determinata realtà, affinché sia consapevole delle dinamiche talora strumentali con cui viene utilizzato il racconto storico e sia capace di aumentare il proprio senso critico di fronte a certe narrazioni storiche molto univoche, molto semplificatorie e molto identitarie. In aree di confine come la nostra è importante ragionare su come la storia sia stata, possa essere e sia ancora in parte utilizzata in maniera strumentale. E mi sembra sinceramente non soltanto una questione intellettuale di conoscenza e di studio, ma che abbia un valore civile e culturale capace di favorire una convivenza concreta e consapevole.
Alessandra Papa
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