Politics | giorno del ricordo

“E allora le foibe?”

La retorica e i falsi miti che accompagnano il Giorno del Ricordo spiegati dallo storico triestino Piero Purich, tra numeri che non tornano e carnefici assurti a eroi.
Foibe
Foto: Giap / Wu Ming Foundation

Il 6 e il 7 febbraio 2005 la tv di Stato trasmette in milioni di case la mini fiction “Il cuore nel pozzo”. A venir portate sugli schermi sono le vicende che avrebbero riguardato un enorme e imprecisato numero di italiani, uomini e donne travolti all’improvviso da una violenza inspiegabilmente barbara e immotivata, uccisi e costretti alla fuga per una sola ed unica colpa: quella di essere italiani e di aver costruito le proprie vite ordinarie in un luogo che italiano non doveva essere più.
L’anno prima il Parlamento italiano si adoperava per approvare la legge n. 92 del 30 marzo 2004 che prevedeva “l'Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”. Qualcuno però cominciò a mettere in dubbio questo tipo di narrazione, una riduzione semplicistica, di parte e che non solo non era in grado di restituire la complessità degli eventi che hanno riguardato le zone dell’Alto Adriatico durante il secolo scorso ma che ne forniva addirittura una restituzione falsa e fuorviante.

Nel 2015 lo storico triestino Piero Purich pubblicò, in collaborazione con il collettivo Nicoletta Bourbaki, un articolo intitolato: “Come si manipola la storia attraverso le immagini: il Giorno del Ricordo e i falsi fotografici sulle foibe”, in cui viene smontata anche una delle fotografie più gettonate - utilizzata nei libri scolastici e persino nelle comunicazioni istituzionali - e che ritrae un plotone di soldati, qualche istante prima della fucilazione di cinque ostaggi.
Questi militari erano soliti essere descritti come appartenenti all’esercito jugoslavo, i fucilati invece come innocenti civili italiani. Fu anche grazie al suo contributo che si apprese che la più famosa delle fotografie utilizzate in Italia per parlare di foibe era in realtà un falso fotografico confezionato ad hoc. I soldati non erano appartenenti alle fazioni jugoslave guidate da Tito, bensì soldati italiani impegnati il 31 luglio del 1942 a fucilare cinque ostaggi sloveni nel villaggio di Dane, nella Loška Dolina, a sudest di Lubiana.

 

Che cosa ci facevano quei soldati italiani a Loška Dolina? La storia come ci viene presentata è davvero il frutto di un processo manipolatorio e riconducibile agli eredi politici dei responsabili del periodo più buio che l’Italia abbia mai conosciuto? Per capirne di più ci siamo rivolte direttamente a lui, Piero Purich.

 

salto.bz: Purich, partiamo dal principio. Quanto assomiglia alla realtà la narrazione de “Il cuore del pozzo”, che giustificava il brutale trattamento riservato agli italiani come l’espiazione della semplice colpa di essere italiani?

Piero Purich: Non assomiglia per niente alla realtà. Quando si dice che nelle foibe sono finiti gli italiani in quanto italiani si tratta di una narrazione falsa. Questo, assieme alla tendenza a considerare ‘infoibati’ anche coloro che sono morti durante le deportazioni e a parlare di foibe continuando a mescolare tra loro avvenimenti profondamente diversi.

Ci spieghi meglio.

“Il cuore nel pozzo” parla delle foibe del ‘43 che di altro non si tratta se non di una rivolta popolare scoppiata nell’Istria sud orientale. L’8 settembre lo stato italiano si sfalda e la popolazione insorge contro coloro che risultano fortemente compromessi con lo sfruttamento e le vessazioni portate avanti dai fascisti nel corso dell’ultimo ventennio. Questo regolamento dei conti da parte della popolazione era talmente fuori controllo che per limitare le giustizie sommarie, i partigiani sono stati costretti ad arrestare i collaborazionisti per evitare che venissero sottoposti a giustizia sommaria dalla popolazione. Quando però le truppe tedesche arrivano a riempire il vuoto lasciato dallo stato italiano fu impossibile per le autorità partigiane organizzare processi in tempi così brevi.
Le soluzioni che vengono messe in atto sono quindi individuali e soggettive a seconda della situazione che vi si presentava: in alcuni casi i prigionieri vengono liberati in altri si opta per la fucilazione. Ma questa del ‘43 era e rimane una rivolta popolare, paragonabile alle jacquerie francesi e alle rivolte contadine del medioevo. La borghesia istriana era infatti una borghesia latifondista che aveva la mano decisamente pesante con i contadini sloveni, espropriati delle proprie terre destinate poi a nuovi coloni italiani.
Nel ‘45 invece, le truppe jugoslave - che a tutti gli effetti rappresentano un esercito alleato e riconosciuto come tale da Londra, Washington e Mosca - sconfiggono i tedeschi e le unità italiane alle loro dipendenze. Un minimo numero di militari finisce nelle foibe, mentre la maggior parte degli appartenenti alle unità collaborazioniste viene fatto prigioniero e successivamente deportato nei campi di detenzione, la stessa sorte che subiscono i soldati italiani catturati dai russi, dagli americani, dai francesi e dagli inglesi. Le condizioni di internamento sono pesanti, molti muoiono per la situazione logistico-sanitaria dei campi, altri vengono giustiziati - senza però essere infoibati - dopo che un processo li ha giudicati colpevoli di collaborazionismo.
Se prendiamo come riferimento le foibe triestine possiamo notare come siano stati rinvenuti molti più sloveni, rispetto agli italiani, tutti comunque infoibati in quanto collaborazionisti o perché appartenenti a formazioni militari legate agli occupanti.

Si può parlare dunque di bambini infoibati? E le donne?

Bambini no, minori sì: due donne rispettivamente di 17 e 19 anni (all'epoca si diventava maggiorenni a 21 anni). C'è ancora il caso di Alice Abbà, di dodici anni, il cui padre, collaborazionista, fu recuperato da una foiba in Istria: dato che la figlia scomparve senza essere mai più trovata, viene considerata infoibata anche lei, ma è una supposizione. Per quanto riguarda le donne, solo otto cadaveri femminili furono recuperati dalle cavità istriane e uno dalle foibe in provincia di Trieste. Nel complesso le donne “infoibate” sono una ventina, ma nella maggior parte dei casi sono semplicemente scomparse e non si hanno notizie certe sulla loro fine. Considerando il caos degli ultimi giorni di guerra potrebbero essere state uccise da chiunque, anche da tedeschi e fascisti allo sbando.

La tesi di pulizia etnica contro gli italiani non sussiste. Si tratta della fatale resa dei conti contro il fascismo messa in atto alla fine della guerra; in questo territorio tali vicende si sono ammantate di significati ricolmi di fini politici ben precisi ma che comunque non stanno in piedi.

Ci dia un po’ di numeri: quanti sono dunque gli italiani che sono finiti nelle foibe?

Anche qui una premessa è doverosa: è difficile identificare come italiano o come sloveno un soggetto che ha abitato un territorio che è sempre stato misto. Basti pensare che durante il censimento del 1910, l’ultimo prima dell’annessione all’Italia, più della metà della popolazione della Venezia Giulia si dichiarava non italiana, e dunque slovena, croata oppure tedesca. In una situazione del genere, dove esiste anche una commistione dovuta ai matrimoni misti e le persone utilizzano una molteplicità di lingue, il definirsi dal punto di vista etnico non è una questione scontata. Io stesso non so farlo, parlo tre lingue e ho origini famigliari complessissime, ma se proprio vogliamo dare questi numeri, secondo i miei calcoli oscilliamo in un range che va tra le 1500 e le 2000 vittime per tutta la Venezia Giulia. Gli infoibati sono nell'ordine di grandezza di alcune centinaia, gli altri sono morti prigionieri nei campi di detenzione. Se vogliamo fare una paragone con le altre città italiane notiamo che nella sola provincia di Torino nello stesso periodo ci sono stati 3.200 morti; nel cosiddetto triangolo rosso emiliano se ne contano quasi 4000; a Genova ci aggiriamo sugli 800 morti.
Risulta quindi chiaro che la tesi di pulizia etnica contro gli italiani non sussiste. Si tratta della fatale resa dei conti contro il fascismo messa in atto alla fine della guerra; in questo territorio tali vicende si sono ammantate di significati ricolmi di fini politici ben precisi ma che comunque non stanno in piedi. Per farle capire la complessità del territorio e delle persone che lo abitavano le potrei portare anche un esempio personale.

Prego.

Mia nonna, la mamma di mia mamma, era figlia di un doganiere boemo, con cui parlava tedesco, e di una donna istriana, con la quale parlava italiano. Aveva frequentato il ginnasio tedesco per diventare maestra elementare ma quando nel ‘18 l'Italia conquistò la Venezia Giulia, tutte le scuole e le associazioni culturali tedesche del territorio vennero chiuse. Tutte le amiche di mia nonna decisero di emigrare in Austria. Anche lei avrebbe voluto farlo, ma dal momento che sua madre non parlava tedesco rimase a Trieste, diventando un’insospettabile maestra italiana e mascherando, per oltre vent’anni, il suo sentirsi più tedesca che italiana, vista la sua formazione scolastica e il forte affetto che la legava al padre. Più avanti conobbe mio nonno, preside della scuola in cui insegnava, e nipote a sua volta di un deputato del parlamento jugoslavo (cosa che tenne sempre nascosta per timore di perdere il lavoro). In quanto preside mio nonno era iscritto al partito fascista.
Nel ‘43 all’arrivo dei tedeschi mia nonna si dimostrò inizialmente felice e ben disposta, perché per la prima volta dopo anni aveva la possibilità di sentire parlare la sua lingua che per tanto le fu negata. Fu felice a tal punto da offrirsi come interprete alle truppe tedesche ma, per sua fortuna, finì aggregata a un battaglione prussiano, che parlavano una variante di tedesco talmente stretto da risultare incomprensibile, perciò rassegnò le dimissioni, salvandosi probabilmente la vita. Nel maggio del ‘45 suo marito, mio nonno, che di cognome faceva Spinetti (in realtà era nato Spinčić, ma negli anni '20 aveva italianizzato il suo cognome), venne arrestato dai partigiani che lo rilasciarono dopo due giorni perchè la persona che stavano cercando portava in realtà il cognome di Spinelli, cosa che mi fa ritenere che i partigiani non andassero a giustiziare alla cieca ma che avessero degli obiettivi ben precisi. Mia nonna convinta che mio nonno fosse ormai stato ucciso dagli jugoslavi ordinò a mia madre e mia zia di prendere tutti i suoi vestiti e consegnarli ai soldati tedeschi ancora presenti in città, ragazzini terrorizzati, ultime leve della Wehrmacht, che nulla avevano di simile agli spaventosi plotoni di SS a cui siamo abituati, affinché potessero lasciare di nascosto la città in abiti civili. Una volta tornate a casa, mia nonna diede loro delle coperte da destinare questa volta ai partigiani jugoslavi. Mia madre e mia zia si dimostrarono incredule di fronte agli ordini di quella donna che non sembrava riuscire a realizzare la differenza tra un nazista e un comunista jugoslavo. Mia nonna, memore di vent’anni di italianizzazione forzata, rispose prontamente: “Tedeschi, jugoslavi… Che importa? L’importante è che non torni più l’Italia”.

Addentriamoci adesso nella legge che istituisce il Giorno del Ricordo, la quale prevede all’Art. 3 che “Al coniuge superstite, ai figli, ai nipoti e, in loro mancanza, ai congiunti fino al sesto grado di coloro che, dall'8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle province dell'attuale confine orientale, sono stati soppressi e infoibati [...] è concessa, a domanda e a titolo onorifico senza assegni, una apposita insegna metallica con relativo diploma” ma che allo stesso tempo afferma che “Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi [...] mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell'Italia”.
Sulla base di queste premesse, chi sono e quanti sono coloro a cui effettivamente è stato destinato questo riconoscimento?

Se si fosse seguita scrupolosamente la legge, la maggior parte dei riconoscimenti non sarebbero stati assegnati perché le persone che vestivano ufficialmente una divisa, anche se era una divisa italiana, erano a tutti gli effetti a servizio della Germania e, in quanto tali, erano obbligati a prestare giuramento alle autorità tedesche. E questa è la prima contraddizione della legge. Anche il riconoscimento ai civili contraddice la legge in sé, perchè se andiamo a vedere i civili premiati si viene a scoprire che praticamente tutti i maschi hanno avuto un tipo di inquadramento militare. Resterebbero premiabili dunque quasi solamente le donne.
Un’altra spaventosa contraddizione è che la legge fa riferimento alle zone del confine orientale ma questi premi sono stati assegnati anche a persone morte in Montenegro, nella Croazia interna e nella Slovenia centrale, in zone decisamente ben lontane dalla Venezia Giulia. Un tasto dolente è invece rappresentato dal fatto che sono stati celebrati anche dei criminali di guerra conosciuti e condannati come tali, come il tenente colonnello Vincenzo Serrentino, prefetto, membro del tribunale volante, chiamato così trattandosi di un’unità mobile aerea, che scorrazzava in tutta la Dalmazia a comminare rapide condanne a morte nei confronti dei partigiani catturati. Dopo il ‘45 venne ritenuto colpevole di crimini di guerra dal tribunale jugoslavo, a tutti gli effetti ritenuto una legittima istituzione di un paese alleato, e condannato a morte per fucilazione.
Un’altra criticità dimora nella possibilità di poter celebrare più volte la stessa persona: bastano le richieste di due diversi familiari o richiederne il riconoscimento in anni diversi. Fino ad oggi sono 384 le targhe assegnate da parte dello stato italiano, doppioni esclusi. Per cui se prendiamo per buone le dichiarazioni dell’ex senatore Gasparri che parlava di un milione di vittime delle foibe, oppure delle “decine se non centinaia di migliaia” ribadite da Mieli, oppure ancora dei 3000 infoibati di Raul Pupo e le mettiamo a confronto con questi 384 riconoscimenti, ci rendiamo conto che le cifre che si continuano a millantare non possono essere corrette.

Sempre citando la legge in questione, ci parla delle “complesse vicende del confine orientale”, a partire dal processo di italianizzazione forzata che ha nominato prima?

L’italianizzazione forzata del territorio comincia già nel 1918, anche già durante la grande guerra in realtà, se vogliamo considerare le prime deportazioni della popolazione slovena che vengono messe in atto quando le zone dell’Isonzo diventano teatro di combattimenti. Quando l'Italia conquista questi territori scatta fin da subito l’avvio della bonifica etnica: uno dei primissimi provvedimenti emanati dal governatore militare per la Venezia Giulia, il comandante Petitti di Roreto, fu di vietare ai reduci dell’esercito austroungarico che non fossero di nazionalità italiana di fare ritorno alle proprie case. Nel gennaio del 1919 venne istituita la pratica del confino allo scopo di allontanare i cosiddetti fautori dell’idea nazionale slovena-croata, che portò all’arresto soprattutto di sacerdoti e insegnanti, incarcerati e deportati al sud, nei primi confinii di Ponza e Ventotene, oppure espulsi oltre la linea dell’armistizio. A questo seguì la chiusura delle scuole prima tedesche e successivamente delle rimanenti altre non italiane.
Un evento cruciale è stato anche l’incendio e la distruzione del Narodni dom, un modernissimo centro polifunzionale, fiore all’occhiello e cuore delle associazioni culturali, ricreative, economiche e sportive slovene, croate e ceche, sito nel centro di Trieste.
Un palazzo monumento alla slavità triestina e malvisto di conseguenza dagli irredentisti, che nel luglio del 1920 decidono di assaltarlo assieme a quella massa di reduci militari che si stava già fascistizzando: il fascio triestino è il secondo infatti a nascere in Italia e quest’azione contribuisce al suo consolidamento.

 

E con l’avvento del fascismo?

Questi provvedimenti diventano molto più sistematici. Si assiste a una serie di brutali violenze squadriste nei confronti di sloveni, croati, anarchici, comunisti e persino cattolici. Si bastona se non peggio, soprattutto a Trieste. La nazionalizzazione sistematica si concretizza con il cambio dei cognomi e l’eliminazione di ogni traccia di radice slava all’interno della popolazione. I cognomi vengono italianizzati, alcuni traducendo in italiano il significato (es: Kovač = Fabbro), più spesso per assonanza: mio padre nasce Purich e diventa Purini. Gli impiegati pubblici sono obbligati a cambiare cognome, pena il licenziamento. Solo gli appartenenti all'élite, la cui italianità e fedeltà al regime non viene messa in dubbio, possono mantenere il proprio cognome, o il sottoproletariato, di cui il regime non si cura. Un altro durissimo provvedimento è stata la progressiva chiusura delle associazioni delle minoranze, dai circoli sportivi a quelli culturali. Le uniche che riescono a sopravvivere sono quelle parrocchiali di stampo cattolico che troviamo nelle zone più rurali. Nelle città però questo non si verifica: vengono rimossi i vescovi nominati durante il periodo austriaco, sostituiti da vescovi vicini al fascismo. Questa presa di posizione della chiesa cattolica contribuisce all’allontanamento massiccio della popolazione slovena dalla religione, che si trasforma poco a poco in una comunità laica e in buona parte vicina agli ideali comunisti.

Quale fu il provvedimento più devastante?

La riforma scolastica Gentile, che stabilisce l’italiano come unica lingua di insegnamento nelle scuole del Regno: ciò implica che gli studenti non possano più imparare la propria madrelingua a scuola, ma anche il licenziamento di numerosi insegnanti sloveni e croati. In pratica tutta l’intellighenzia culturale triestina e goriziana viene spazzata via. Vengono chiuse tutte le banche slovene, fagocitate dagli istituti bancari italiani e molti sloveni vedono andare in fumo i propri risparmi. In queste condizioni agli sloveni e croati della Venezia Giulia restano solo due soluzioni: italianizzarsi oppure andarsene. Si calcola che circa centomila persone (su una popolazione complessiva di un milione di abitanti) abbiano lasciato la Venezia Giulia dal 1918 al 1939, in quello che possiamo tranquillamente considerare un esodo forzato.
Un altro fenomeno molto importante da considerare è quello dell’immigrazione italiana verso i territori dell’Alto Adriatico, a partire dal primo dopoguerra: numerose persone vengono inviate da altre parti d’Italia per sostituire i dipendenti pubblici e i lavoratori licenziati assieme ad un numero spropositato di personale in divisa, portato da 25 mila unità del periodo austroungarico (di cui però 17.000 concentrati a Pola, base della marina militare austriaca) a quasi 50 mila, portando ad una militarizzazione pressochè totale della zona di confine.

Anche in Alto Adige abbiamo vissuto forme di italianizzazione forzata. Che tipo di paragone possiamo fare, in termini di analogie e differenze, con le vicende che hanno interessato l’Alto Adriatico?

Sicuramente ci sono delle comunanze per quanto concerne i cambi di cognome , il tentativo di soppiantare la popolazione tedesca con quella italiana, il cambio della toponomastica e la “fascistizzazione urbanistica”. Bolzano è una città architettonicamente fascistissima e questo coincide con quanto è avvenuto a Trieste, con interi quartieri medievali abbattuti allo scopo di costruire palazzi in stile piacentiniano e di compiacere il Duce con la riscoperta archeologica di monumenti di epoca romana, spesso falsi storici. Anche in Alto Adige c’è stata uno spostamento forzato (o quasi) di popolazione: l'opzione per i sudtirolesi se rimanere sul posto decidendo di italianizzarsi oppure restare tedeschi ma trasferirsi nelle nuove conquiste del Reich. Ciò che differenzia i due fenomeni sono le reazioni verificatesi durante la seconda guerra mondiale: i tedeschi per diventare “resistenti” nei confronti dell’Italia avrebbero dovuto parteggiare per i nazisti. Gli sloveni optano per una scelta comunista, prendendo ad esempio la vicina Jugoslavia.

 

Esodo e foibe: tanto nel testo di legge quanto nella narrazione comune vengono dipiniti come se l’uno fosse la conseguenza dell’altro. Considerando che le foibe sono state un fenomeno circoscritto, che ha riguardato principalmente la primavera-estate del '45, mentre gli spostamenti di popolazione, che ha trattato all'interno del saggio “Metamorfosi Etniche”, comprendono periodi di tempo ben più dilatati, qual è la relazione effettiva che intercorre tra questi due avvenimenti?

L’incidenza delle foibe sull’esodo è frutto perlopiù di una consistente opera propagandistica nazifascista messa in atto per spingere parte della popolazione, soprattutto quella fascista, ad abbandonare quei territori. Non è un caso infatti che le prime partenze tra il '43 e il ‘45 vengano definiti “l’ondata nera”. Questo passaggio è interessante perché ci fa comprendere il perchè dell'assenza di “pesci grossi” tra gli infoibati: semplicemente sono scappati, prima a Trieste e successivamente a Milano o nel nord Italia. L' “onda nera” è l'unica componente dell'esodo che corrisponda perfettamente alle tesi delle destre, cioè che si scappava a rischio della vita: questi “esuli neri”, infatti, rischiavano effettivamente la pelle, non in quanto italiani ma in quanto fascisti.
Ad ogni modo l’esodo nella sua globalità è un fenomeno complessissimo, che si sviluppa per quasi vent’anni e che presenta una serie di variabili incredibili in relazione tanto agli anni quanto ai luoghi di partenza. Il primissimo è l’esodo di Zara, un'enclave italiana sulla costa jugoslava. Qui la quasi totalità della popolazione se ne va in seguito ai bombardamenti tra il ‘43 e il ‘44, quindi per questioni belliche.

E in seguito?

Con il trattato di pace nel ‘47 si verifica una partenza consistente dall’Istria centrale e meridionale e da Pola, un esodo che in realtà viene assai pubblicizzato dalle associazioni dei profughi, che fanno capo alla DC o a movimenti neofascisti. Grazie ai finanziamenti ottenuti dallo stato italiano queste organizzazioni mettono in moto una grossa campagna pubblicitaria che invita all’abbandono dei territori di confine e incentiva il più possibile i nuovi arrivi in Italia, occasione che coglie al volo parte della popolazione italiana attratta anche dal possibile tenore di vita raggiungibile grazie agli incentivi economici e alle opportunità che avrebbe creato, almeno nell’immaginario, uno stato capitalista, rispetto quello jugoslavo di stampo socialista che si stava delineando.
Dal '48, in seguito alla rottura tra Tito e Stalin, tra chi parte ci sono anche comunisti  filosovietici: la stragrande maggioranza parte di essi rifiuta però di entrare in contatto con le associazioni dei profughi, vedendosi privati di conseguenza di tutti i benefici ricevuti dagli altri esuli.
Nel ‘54 lo spopolamento dell’Istria raggiunge livelli insostenibili, tali che la Jugoslavia decide di impedire le partenze degli italiani fino agli anni '60 (blocco che contraddice evidentemente la tesi della pulizia etnica), cercando inoltre di compensare lo svuotamento dei territori con il trasferimento di immigrati macedoni e bosniaci.

Io trovo vergognoso trasformare una giornata che sancisce la fine della guerra, cioè il ritorno alla pace, in una giornata di lutto nazionale

Ritorniamo alle celebrazioni del Giorno del Ricordo. Quali sono i significati e le implicazioni politiche nello stabilire la celebrazione di questa giornata il 10 febbraio, giorno della firma del trattato di pace di Parigi?

Io trovo vergognoso trasformare una giornata che sancisce la fine della guerra, cioè il ritorno alla pace, in una giornata di lutto nazionale, non credo ci sia molto altro da aggiungere. Riusciamo a immaginare le reazioni che si scatenerebbero in altri paesi qualora la Germania, con i suoi 12 milioni di esuli alla fine del conflitto, decidesse di istituire una giornata simile per celebrare le proprie vittime cadute per mano sovietica, americana o inglese durante la Seconda Guerra Mondiale?

Concludendo, se davvero stiamo assistendo a un tentativo di manipolazione degli eventi storici a favore di una narrazione che senza tanti eufemismi potremmo considerare una vera e propria opera di propaganda trainata dalle destre filofasciste, quali sono le responsabilità della sinistra istituzionale che non solo sembra non voler porre freno alcuno a questa opera di falsificazione ma che addirittura sembra volerla assecondare?

Purtroppo la sinistra istituzionale, mi si scusi il termine, si è calata le brache. La demonizzazione del comunismo, il conseguente ripudio dell'ex PCI della propria storia (compreso ciò che aveva diversificato Botteghe Oscure da Mosca), la dissoluzione della Jugoslavia, il fuggi fuggi degli intellettuali dall'alveo della sinistra in cui si erano formati, la propaganda televisiva e la sempre più pesante egemonia del centrodestra (berlusconiano e neofascista) nei media, hanno portato l'elite politica e culturale del centrosinistra ad allinearsi perfettamente alle posizioni della destra. Mi colpisce molto anche il cambio di terminologia: fino a tutti gli anni '80 nessuno a sinistra usava mai la parola patria intendendo lo stato italiano, utilizzando piuttosto il termine paese. Oggi, invece, nei discorsi ufficiali quest'ultimo vocabolo sembra sparito.
L'inizio del tracollo è stato il funesto incontro Fini-Violante del 1998, che permise ai neofascisti di imporre la propria vulgata, con Violante pronto a scaricare tutte le responsabilità storiche sulla (defunta) Jugoslavia, a condividere l'omissione dei crimini italiani in Jugoslavia e ad avvalorare il cliché delle vittime uccise in quanto italiane.
Un'altra grave responsabilità va ascritta all'ex presidente Napolitano, capace con il suo discorso del 2007 di creare addirittura un incidente diplomatico tra Italia e Croazia parlando di “furia sanguinaria”, “disegno annessionistico” e “pulizia etnica”, dunque sposando in pieno sia i concetti che la più becera terminologia della destra.
Purtroppo assistiamo sempre di più ad una “sinistra” del tutto succube alla narrazione della destra più sciovinista, capace di allinearsi a qualsiasi retorica nazionalista e patriottarda pur di raccattare i voti dell'elettorato di centro, ormai più sensibile a inni e bandiere che ai veri problemi sociali del paese.

 

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Martin Aufderklamm Wed, 02/10/2021 - 21:40

Complimenti!
Chi lo ha letto superficialmente ha tacciato l'articolo come negazionista, ma e'esattamente il contrario, un'analisi precisa e dettagliata.
Diventerà l'articolo della settimana?

Wed, 02/10/2021 - 21:40 Permalink
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Matthias Wallnöfer Sat, 02/13/2021 - 15:10

> Bolzano è una città architettonicamente fascistissima e questo coincide con quanto è avvenuto a Trieste, con interi quartieri medievali abbattuti allo scopo di costruire palazzi in stile piacentiniano e di compiacere il Duce con la riscoperta archeologica di monumenti di epoca romana, spesso falsi storici.
Glücklicherweise ist es aber auch in Triest nicht gelungen, das alte Bild dieser wunderschönen Hafenstadt an der Adria völlig aus dem Bewusstsein zu verdrängen. Und nicht nur das: Im Friaul ist es nicht unüblich, deren Stadtbevölkerung noch heutzutage als "austro-ungarici" zu betiteln.

Sat, 02/13/2021 - 15:10 Permalink
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Simonetta Lucchi Sun, 04/30/2023 - 10:01

Concordo in parte in parte no. Come storica dell'arte trovo definizioni imprecise. Da un punto di vista di memorie familiari anche, ma qui come dice l'autore sono situazioni talmente complesse che è difficile orientarsi, anche. I confronti con il Sudtirolo non sempre pertinenti. È evidente, e l'ho evidenziato anche nel mio libro "Linea di confine" che non esisteva odio preconcetto contro gli "italiani" piuttosto contro i crimini del fascismo, ma purtroppo a un certo punto per qualcuno questi due aggettivi hanno coinciso. Come del resto in Sudtirolo. Chiederei al sig. Purich, se mi legge, come si fa tecnicamente a farsi riconoscere il cognome cambiato. Mi interesserebbe molto personalmente.

Sun, 04/30/2023 - 10:01 Permalink