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Cosa succede quando si incontra la legge

Angela Davis diceva: “Le prigioni sono il buco nero in cui i detriti del capitalismo vengono buttati”. Agnes Schwienbacher in “Rinchiusa” ci racconta che è ancora così.
Rinchiusa
Foto: Raetia/Salto.bz

Agnes Schwienbacher viene dalla val d’Ultimo, è la tredicesima di quindici fratelli e sorelle, è un’organista, ha quasi sempre vissuto tra le montagne. Quasi sempre, appunto, perché la storia di Agnes – raccontata nel suo libro autobiografico “Rinchiusa. In balia della giustizia”, pubblicato da Edition Raetia nel 2020 – non si svolge solo tra i masi del Sudtirolo, ma anche tra le mura del carcere Dozza di Bologna e quelle, altrettanto strette, di una comunità terapeutica per persone con dipendenze da sostanze. Si potrebbe pensare che leggendo “Rinchiusa” ci si imbatta in un’esperienza anomala perché raramente l’immaginario dell’Alto Adige è associato alla droga, alla criminalità, o al disagio, ma, come spesso accade, l’immaginario è costruito solo da ciò che si vuole trasmettere di un luogo. Il Sudtirolo vanta diversi record che poco hanno a che fare con un basso tasso di disoccupazione o un alto Pil pro capite: è una provincia dove, per esempio, l’elevato tasso di alcolismo e di suicidi rappresenta un problema da risolvere ma anche da nascondere. Ciò che è anomalo nel libro di Agnes Schwienbacher è, invece, l’onestà e la schiettezza con cui l’autrice narra la sua storia, una storia che l’ha vista avvicinarsi all’eroina all’età di quarant’anni, che l’ha vista coinvolta nell’operazione Synergy, che l’ha vista rinchiusa in una cella di una galera sovraffollata per quattro lunghissimi anni.

Erano le quattro del mattino del 13 novembre 2007 quando degli uomini della questura suonano al campanello di Agnes per prelevarla da casa – dove viveva con i suoi quattro figli – e portarla al carcere di Bologna nel reparto di massima sicurezza dove trascorre in cella di isolamento i primi dieci giorni. L’accusa di associazione a delinquere e traffico di droga Agnes la comprende da Erna, la sua prima coraggiosa compagna di cella, perché delle 111 pagine dell’atto di accusa scritto tutto in italiano e con gergo specialistico Agnes – madrelingua tedesca – capisce molto poco. Ciò su cui invece non ha alcun dubbio fin dal primo momento è la disumanità di un luogo di reclusione e di chi conduce qualcuno in quel luogo di reclusione: “Mai e poi mai vorrei dover portare qualcuno in carcere”.

 

 

salto.bz: In un passaggio del tuo libro scrivi: “Devo passare in cella ventitré ore al giorno, sempre accanto alla stessa persona, in uno spazio di undici metri quadrati, gabinetto compreso. Nemmeno con un amante vorrei vivere così intimamente”. Che rapporto hai instaurato con le tue compagne di cella? Come ti sei rapportata al dover condividere l’intimità con persone sconosciute?

Agnes Schwienbacher: In quattro anni ho convissuto con molte persone e non è possibile generalizzare. Con la maggior parte delle detenute mi sono trovata bene, anche se sono state pochissime quelle che avevano un carattere simile al mio. Per me la difficoltà maggiore per quanto riguardava la convivenza era la televisione: quasi tutte, a parte una sola compagna di cella, volevano tenere la tv accesa dalla mattina alla sera e io non lo sopportavo. In parte anche perché non ero interessata ai programmi che guardavano. A me piacevano le trasmissioni d’arte e religiose. Sai, quando si è dentro, ci si avvicina molto alla fede perché è qualcosa che dà speranza. Si dice che anche chi non ha mai pregato in carcere inizia a farlo.

“Una volta ero curiosa di sapere cosa succedesse in un carcere. Ora lo vedevo con i miei occhi. Con me erano incarcerate ragazze, prostitute, straniere con documenti falsi, madri con bambini e tossicodipendenti, tutte brave donne, con le quali potevo parlare di tante cose.” Questo è uno dei tanti passaggi in cui descrivi il profondo rapporto di solidarietà che si crea tra le detenute. Cosa hanno significato per te le tue compagne?

Quando sono stata arrestata ero da sola, le uniche persone con cui potevo parlare erano le detenute. Donne gentili, accoglienti, disposte a dare aiuto. Con le altre detenute si condividono molte emozioni, tra cui la gioia della liberazione. Penso alle battiture che si fanno quando qualcuna viene liberata: quando si sapeva che una di noi usciva, era un gesto spontaneo prendere qualcosa e iniziare a battere. Quando è successo a me mi tremavano le ginocchia dalla gioia. È difficile da spiegare cosa si prova quando si sente quello che io definisco i “suoni della libertà”. È qualcosa di molto commovente. Tornando alla questione solidarietà, tra noi detenute c’è sempre stata indipendentemente dal rapporto che si instaurava. Per tutte, nessuna esclusa, era chiaro che non si rinchiude mai nessuna persona.

“Il sovraffollamento c’è anche qui, non solo tra gli uomini. Si sta paurosamente strette in tre in undici metri quadrati. La legge prescriverebbe sette metri quadrati a persona. Provo a immaginare come vivano gli uomini laggiù nel carcere maschile, in quattro in undici metri quadrati. Una follia! Non per niente sentiamo parlare di tentativi di suicidio fra loro, proprio di recente c’è stato un altro decesso. Se solo potessi dare una mano!”

La mancanza di spazio è una condizione difficile da gestire sia fisicamente sia psicologicamente. Si sono mai verificate proteste interne al carcere femminile per le condizioni di vita delle detenute nel periodo in cui c’eri anche tu?

Sì, abbiamo fatto tantissime battiture. Oltre alle proteste interne, ci sono i presidi di solidarietà fuori dal carcere. Sempre all’ultimo dell’anno e all’improvviso in un giorno qualunque, si sentiva una musica forte che veniva da fuori e discorsi le cui parole non erano ben comprensibili. Mi ricordo che una volta una ragazza anarchica detenuta insieme a me aveva riconosciuto i suoi amici che da fuori il carcere ci mandavano la loro solidarietà. A me queste dimostrazioni hanno sempre fatto bene: anche solo sentire un petardo che scoppiava fuori era d’aiuto. Pensavo: “chissà, magari questa volta cadono i muri!”.

Hai deciso di approfittare della reclusione per disintossicarti, rifiutando di protrarre troppo a lungo l’uso del metadone e rifiutando il consumo di valium. Sembrerebbe che in carcere ti facciano entrare per azioni legate alla droga ma non ti permettano di disintossicarti. Perché, secondo te, avviene questo?

Quella dentro il carcere è una situazione molto complessa. Non credo sia possibile attribuire la colpa ai medici che decidono di scalare molto lentamente il metadone o che prescrivono medicine per qualsiasi sintono. Dentro ci sono molte persone con problemi di dipendenze, ma la galera non è l’ambiente adatto per disintossicarsi, perché mancano alcuni comfort. Penso, per esempio, al bisogno di calma e di silenzio che in carcere non esiste: lì c’è sempre rumore di ferro, di porte che sbattono, di chiavi che aprono e che chiudono. A me è mancata molto la possibilità di optare per la medicina naturale o omeopatica con cui mi sono sempre curata e una sana alimentazione. Quando ero a casa, avevo fatto per due volte l’astinenza fredda e ciò che mi aveva aiutato erano anche le spremute, i centrifugati, i cibi ricchi di vitamine. In carcere, se non hai soldi, non ti puoi permettere nulla di buono, nemmeno, nel mio caso, un barattolo di miele.

Dopo essere stata alla comunità Il Sorriso, avresti avuto la possibilità di andare a San Patrignano, ma, piuttosto di San Patrignano, hai preferito tornare in carcere. Perché l’esperienza in comunità è stata tanto terribile?

Quando sono stata in comunità mi è mancata la stima e il riconoscimento. Lì il sistema era basato sulla punizione e su regole impossibili da non trasgredire perché c’erano regole stupide per ogni cosa. Non esisteva una linea di condotta chiara: si trattava di un gioco di potere, volevano farci vedere chi comandava e chi doveva solo ubbidire.

Avevo già sentito parlare di San Patrignano e sapevo che lì le regole erano ancora più rigide. Davanti a questa opportunità non ho avuto dubbi di preferire tornare in cella, dove ero lasciata maggiormente in pace. Ti faccio un esempio: in carcere potevo scrivere tutte le lettere che volevo in tedesco, al Sorriso, invece, mi permettevano di scriverne tre a settimana e in italiano. Addirittura dopo alcuni mesi mi obbligavano a tradurre davanti a loro le lettere in tedesco che ricevevo dalle mie amiche e dalla mia famiglia, tutte persone madrelingua tedesca.

Un aspetto che trapela dal tuo libro ma che non viene sempre in mente è l’assenza di colori in carcere. Indossi ancora abiti grigi?

Pochi. Tornata in valle, ho visto che avevano costruito una nuova scuola elementare con le pareti esterne grigie. Io ho pensato che non fosse possibile una cosa del genere, mi sono domandata cosa stessero facendo. Ma più dei colori, il mio problema è stato fare i conti con la sensazione di “cella chiusa”. All’inizio facevo molta fatica a rimanere in una casa e ancora oggi non mi sento bene dentro le case. Fuori dalla finestra di camera mia la sera si accendono due fari gialli, esattamente come accadeva in carcere. Per un periodo non sono riuscita a dormire nella mia camera.

Come ti ha cambiato l’esperienza del carcere?

È stata un’esperienza che mi ha fatto capire molte cose, tra cui la crudeltà che lo Stato riserva alle e ai detenuti e i limiti del nostro sistema. Il carcere dovrebbe rappresentare un percorso di riabilitazione, ma è qualcosa di assolutamente impossibile per come è strutturato. Credo che ogni persona dovrebbe avere il diritto alla salute, al lavoro e a una vita dignitosa, ma quando sei dentro questi diritti ti sono negati. Sai qual è il controsenso? Che tu entri perché hai infranto qualche legge, ma nel carcere non vengono rispettate delle leggi basilari come quella riguardante lo spazio che dovrebbe essere assicurato a ogni detenuta e detenuto.

Agnes, cosa pensi del carcere?

Il carcere rappresenta una spinta verso la follia, una spinta verso la violenza, che nei casi più estremi porta al suicidio. In galera i diritti umani vengono calpestati ogni giorno. Ho paura di sapere cosa hanno vissuto negli ultimi due anni le detenute e i detenuti: si sono visti togliere le cose più preziose, come i colloqui, le attività – dai corsi alla scuola –; nemmeno il cappellano poteva entrare a portare un po’ di conforto. Secondo me è necessario migliorare le condizioni del carcere per migliorare la società.