Politics | referendum giustizia

"Costruire la democrazia partecipativa"

Intervista a Francesco Palermo, docente di diritto pubblico comparato, per conoscere meglio lo strumento del referendum, alla vigilia del voto di domenica 12 giugno
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Foto: (c) Privat

A pochi giorni dal referendum sulla giustizia, che si terrà domenica 12 giugno, restano ancora molti dubbi sui 5 quesiti referendari, riguardanti non solo materie differenti tra di loro, ma ambiti decisamente tecnici e di non immediata comprensione. I sondaggi sembrano indicare una scarsa partecipazione al voto e, nonostante sia ancora presto per un’analisi completa, tale dato inizia ad avere risvolti interessanti, soprattutto in una stagione che vede un crescente uso degli strumenti di democrazia diretta, invocati come soluzione, ma spesso abusati per nascondere la crisi che i partiti, non solo in Italia, stanno vivendo. Sembra mancare, infatti, il ruolo di mediazione della politica, necessaria per costruire una consapevolezza solida, che permetta la partecipazione costante dei cittadini e lo sviluppo continuo della democrazia. Ne discutiamo con il Professor Francesco Palermo, professore ordinario di Diritto pubblico comparato nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Verona e Direttore dell’Istituto di studi federali comparati di Eurac Research a Bolzano

Salto.bz: Professor Palermo, la Corte costituzionale ha scelto di considerare ammissibili questi 5 quesiti, che sono però piuttosto tecnici. Si tratta di una scelta insolita? 

Francesco Palermo: Più che di scelta insolita, credo si possa parlare di scelta criticabile. Sono, infatti, rimasti fuori altri 3 quesiti, in materia di suicidio assistito, depenalizzazione delle droghe leggere e responsabilità civile diretta dei magistrati, che avrebbero avuto una maggiore immediatezza e una maggiore rilevanza sui cittadini. Ne sarebbe nato un dibattito più stimolante, che avrebbe trascinato l’affluenza, tanto da permettere, probabilmente, il raggiungimento del quorum. La decisione della Consulta ha lasciato, invece, spazio a molte critiche, se si pensa poi che su uno dei quesiti, quello sulla responsabilità civile dei magistrati, si era già tenuto un referendum negli anni ‘80. 

 Il dibattito, invece, dovrebbe svilupparsi sul tipo di garanzie necessarie per avere un sistema giudiziario indipendente e sulle riforme utili a tale scopo

Tale decisione può però essere considerata un segnale al Parlamento, per accelerare la riforma della giustizia? 

La Consulta interviene già in maniera decisa nel dibattito politico, basti pensare al caso emblematico della legge elettorale o alla sentenza sul doppio cognome, emessa dopo diversi richiami ad un Parlamento troppo statico e poco recettivo. Pur non essendoci motivi tecnici per impedire questo referendum, si rimane però un po’ perplessi dalle motivazioni della Corte, soprattutto per quanto riguarda i 3 quesiti tagliati fuori. Ad una lettura sospettosa, caratterizzata anche da un pizzico di dietrologia, sembra che la Consulta abbia perso un po’ di fiducia nel referendum come strumento di democrazia diretta. 

Il quesito più controverso è forse quello sull’abolizione del decreto Severino. La sua eventuale abrogazione avrebbe un impatto significativo contro la lotta alla corruzione? 

Il decreto venne approvato sull’onda di una forte sfiducia nei confronti dei partiti, visti come completamente incapaci nel trovare una soluzione al clientelismo. La concezione del decreto è decisamente draconiana: l’automatismo della decadenza o della sospensione dalle cariche non lascia spazio al giudice nel decidere quando applicare le misure dell’interdizione dai pubblici uffici, nonostante si parli di fattispecie varie di reati, che hanno impatti differenti sulla gestione della cosa pubblica. Il vero tema riguarda, invece, il tipo di giustizia che vogliamo, basata sull’adozione di schemi rigidi o su una valutazione legata al singolo caso. Questo tipo di dibattito, purtroppo, non si è sviluppato e la politica non ha saputo mediare tra le diverse istanze provenienti dalla cittadinanza. 

Un’altra discussione si svolge invece sull’eventuale abolizione della possibilità di prevedere le misure cautelari nel caso di pericolo di reiterazione del reato. I promotori del referendum pensano che si faccia un eccessivo ricorso a tale misura, mentre i sostenitori del no credono che un eventuale abrogazione potrebbe danneggiare le presunte vittime, c’è davvero questo rischio? 

Entrambi i punti di vista presentano delle motivazioni valide. In Italia si ricorre spesso alle misure cautelari, circa un terzo dei detenuti del paese è in attesa di giudizio, ma capita che ci sia un’alta incidenza di recidiva, soprattutto per determinati reati. Il problema è, però, quello di una giustizia troppo lenta, che scarica sui detenuti e sui cittadini la sua incapacità di arrivare a sentenze più rapide. In questo scenario ci si scontra spesso con la scelta tra diritti dell’imputato e diritti dei cittadini, quando la strada da percorrere sarebbe quella della maggiore celerità dei processi. 

Gli altri 3 quesiti riguardano l’operato e la carriera dei magistrati. Nonostante si parli da anni di riforme specifiche, non ci sono stati cambiamenti particolari, lo strumento referendario può essere davvero una soluzione? 

Non si tratta di un mezzo risolutivo, soprattutto in queste questioni. Al contrario, se utilizzato come arma, può arrivare ad essere addirittura dannoso e rallentare il processo di riforma. Basta osservare le manovre politiche che sono state messe in atto per arrivare alla votazione della riforma della giustizia (cosiddetta riforma Cartabia), in Senato, dopo la giornata di domenica 12 giugno. 

I promotori del referendum pensano che, grazie alla vittoria del sì su questi 3 quesiti, si verificherebbe un allontanamento della politica dalla magistratura, senza ulteriori norme, però, non ci sarebbe il rischio dell’ennesimo tentativo non andato a buon fine? 

È decisamente utopistico pensare che attraverso l’abolizione dell’obbligo di firma di 25 magistrati per ogni candidatura, ci possano essere candidati senza sponsorizzazione politica. Come è utopistico pensare che introducendo la componente laica nella redazione dei pareri sull’operato dei magistrati possano esserci dei cambiamenti rilevanti sul giudizio finale, l’organo preposto alla decisione rimane comunque il CSM (Consiglio Superiore della Magistratura). Anche il quesito sulla separazione tra pubblico ministero e giudice risulta essere abbastanza irrilevante. Il dibattito, invece, dovrebbe svilupparsi sul tipo di garanzie necessarie per avere un sistema giudiziario indipendente e sulle riforme utili a tale scopo. 

 Si tratta di un circolo vizioso, nel quale una politica debole scarica sul corpo elettorale decisioni che non è in grado di assumersi

Cosa potrebbe succedere se la riforma Cartabia non tenesse conto dell’esito referendario, qualora si raggiungesse il quorum? 

Dal punto di vista giuridico non ci sono motivazioni che possano ostacolare una decisione diversa dall’esito della votazione, ma i vari rappresentanti dovrebbero poi rispondere agli elettori di questa mancata adesione. 

Da qualche tempo ci si interroga sulla possibilità di riformare il referendum, soprattutto dopo l’introduzione della firma digitale, si può davvero parlare di procedure obsolete? 

La firma digitale ha rappresentato un’importante novità, ma la questione centrale rimane quella del quorum, che è previsto, però, in Costituzione. Non credo si debba aver paura della democrazia diretta, del resto in Italia si è fatto spesso ricorso al referendum, magari non per questioni così tecniche, ma su temi etici e di progresso sociale ha rivelato tutta la sua utilità. Tutti gli strumenti democratici poi hanno bisogno di una costante manutenzione e, se necessario, anche  di una revisione. Dovrebbe però nascere una discussione seria e partecipata sulle forme e sulle modalità attraverso le quali la nostra democrazia deve esplicarsi.

Negli ultimi tempi il ricorso alla democrazia diretta ha assunto derive populiste. Brandito come unico strumento efficace contro la stasi dei partiti, non rischia di snaturarsi e di ridimensionare in maniera ancora più inesorabile il fondamentale ruolo di mediazione e competenza della politica? 

Si tratta di un circolo vizioso, nel quale una politica debole scarica sul corpo elettorale decisioni che non è in grado di assumersi, con effetti dannosi sia sulla politica che sullo strumento del referendum. La via d’uscita a tutto questo non è un uso smodato della democrazia diretta, al contrario ben vengano i vincoli rappresentati dal quorum e dalle limitazioni su alcune materie, che non possono essere oggetto di quesiti referendari (la materia tributaria ad esempio), ma nemmeno si può auspicare il ritorno alla centralità della politica rappresentativa. Al contrario si potrebbe percorrere la strada della democrazia partecipativa, la quale riesce ad unire i vantaggi sociali della democrazia diretta con il ruolo di mediazione delle istituzioni. Se è difficile oggi pensare alla ricostruzione dei partiti, le istituzioni possono invece farsi carico di questo compito fondamentale, lavorando sulle capacità di andare oltre gli schieramenti e sulla vicinanza ai cittadini, anche nella loro espressione territoriale. 

 

 

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Karl Trojer Thu, 06/09/2022 - 10:15

Ist es nicht auch so, dass Referenden als direktdemokratisches Instrument ihren Wert verlieren, wenn sie derart kompliziert fomuliert sind wie diese ? Referenden müssen, m.E., in wenigen einfachen Sätzen das Wesentliche zusammenfassen, damit eindeutig mit JA oder NEIN abgestimmt werden kann.

Thu, 06/09/2022 - 10:15 Permalink