Sport, politica e indifferenza
Vado controcorrente, anzi contro il muro, anzi faccio una tuffo con spanciata come quei due meravigliosi atleti filippini: a me lo sport in genere annoia. Ne riconosco ovviamente l'utilità privata, per la salute, e il fascino pubblico, cemento per le masse, eppure si tratta di un fenomeno che mi suscita scarsa o scarsissima emozione. Ammetto che ciò dia luogo, di tanto in tanto e per evidente contraddizione, a comportamenti deteriori, quali per esempio la goffissima corsa ad accaparrarmi un posto in prima fila in quei luoghi (si tratta quasi sempre di bar) che offrono, oltre all'aperitivo, la visione di avvenimenti di grande attrazione plebea, per esempio le partite dei campionati europei o mondiali di calcio. Mi capita, in quelle occasioni, persino di fare il tifo per la squadra che (a causa di un imprinting innegabile) rappresenta i colori della nazione nella quale il caso mi ha fatto nascere, così mi trasformo nella controfigura del ragionier Ugo Fantozzi, quando inchiodava la macchina sotto la finestra del tizio e, dopo avergli sfondato il vetro, implorava di essere informato su chi avesse fatto palo. Ma tutto finisce lì, un minuto dopo il fischio finale. Se il risultato sorride agli “azzurri” sorrido anch'io, non mi verrebbe mai in mente di sfilare per la città con il tricolore e confesso che provo persino fastidio vedendolo fare agli altri.
Adesso ci sono le Olimpiadi, tutti si scaldano per il medagliere – i social impazzano, come si suol dire – e ovviamente vengono diffusi ringraziamenti a questo o quell'atleta fino a qualche giorno prima totalmente ignorato (ignorata) al pari della disciplina nella quale si cimenta. Poco male. Si tratta di una competizione trasmessa in televisione, ne parlano tutti i giornali (lo sto facendo persino io qui), non è possibile sottrarsi. Quello che però non mi va giù è il continuo accento sull'orgoglio collettivo che dovrebbe naturalmente discendere dall'identificazione con la provenienza geografica dei campioni in questione. Un orgoglio, ovviamente, subito adottato dai rappresentanti politici, che si sentono in dovere di scrivere messaggi, emanare le loro considerazioni strumentali (Arno Kompatscher ha affermato che l'argento delle tuffatrici Cagnotto e Dallapè è un “simbolo di quella collaborazione che Alto Adige e Trentino stanno attuando nell'Euregio”) o incitare gli atleti lontani a mostrare sul corpo e in mondovisione un segno di attaccamento alla patria (il buon Roland Lang, puntuale come un orologio svizzero, non ha mancato di scrivere ai sudtirolesi impegnati nelle gare spronandoli ad allacciarsi al polso un braccialetto bianco e rosso).
Concludo il mio inutile (ne sono consapevole) lamento, il mio sfogo insulso. Queste competizioni mi paiono sempre di più una pigra orgia di istinti superficiali e scontati, un patriottismo alla portata del più becero panzone incompetente, in cerca solo di emozioni aggiuntive mentre si scola la birretta estiva in giardino o prepara la grigliata di salsicce e costine di maiale (manca un po' di sale, passami il sale). Non ho ricette da dare per “correggere” questa tendenza e, anzi, sono lietissimo di non averne. Coltivo un minoritario ancorché immodesto snobismo fondato sul disinteresse. Non dico “vinca il migliore” ma “chi vince, vi prego, non faccia troppo rumore”.