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Culture | Tra gli scaffali

La bolla di Mantova

La letteratura degli ultimi e dei respinti protagonista al festival della città lombarda.

Una ragazzina che, nella seconda metà degli anni 70, si trova a dover migrare con la sua famiglia da San Pietroburgo a Vienna. L’inserimento in una realtà completamente diversa reso ancor più complesso dallo scontro con due genitori e una nonna che la vorrebbero pittrice ed ai quali lei si ribella scegliendo altre strade, intraprendendo ad esempio la professione di interprete, declinata tra l’altro anche nel ruolo di tramite linguistico tra uno psicoterapeuta e i suoi pazienti provenienti da realtà lontane. L’appuntamento con l’arte di Julya Rabinowich prende alimento anche da queste esperienze. Diviene scrittrice, giornalista, collaboratrice di testate autorevoli nel mondo austriaco come “Der Standard”. Restituisce il suo vissuto di esperienze personali della migrazione propria e altrui in una serie di opere letterarie, di testi teatrali, di novelle. Tra gli ultimi lavori pubblicati una trilogia al centro della quale c’è la figura di una giovane protagonista, Adina, che giunge in Austria da un luogo che, per una scelta precisa maturata, spiega Rabinowich, durante il lavoro di revisione della prima stesura, non è volutamente indicato. Adina potrebbe arrivare da uno qualunque dei molti paesi di diversi continenti che sono il punto di partenza di un viaggio che si ferma nel cuore dell’Austria. I tre volumi, due dei quali già usciti anche in Italia con i titoli “E adesso io” e “E adesso noi”, Besa Muci Editrice, raccontano la storia di un viaggio che si è concluso dal punto di vista del muoversi nello spazio, ma che continua nel divenire faticoso di un adolescente, costretta non solo a confrontarsi con il cambiamento radicale, ma a diventare tramite obbligato tra il mondo nuovo e il resto della sua famiglia che, a quel mondo, stenta molto più di lei ad accostarsi.

Julya Rabinowich al Festival della Letteratura di Mantova.  

Presentata da un’altra scrittrice, Bianca Pitzorno, racconta e si racconta in un dialogo con chi la intervista e con il pubblico che non sfugge all’analisi impietosa, quella che fa settimanalmente nel suo ruolo di commentatrice sui quotidiani e sui periodici, dell’accoglienza che oggi ricevono i    migranti della realtà austriaca. “Io – dice - allora fui accolta sostanzialmente a braccia aperte. Oggi la situazione è drammaticamente peggiorata”. 

Parte così dai libri e dall’esperienza di una ragazza russa catapultata oltre i confini della sua infanzia, un ipotetico itinerario nell’edizione 2023 del Festival. Come sempre avviene in questi casi, quando l’offerta di proposte supera grandemente l’umana possibilità di seguire tutto nei cinque giorni su cui si articola la manifestazione, si delinea anche il percorso che ciascuno delle migliaia di visitatori si costruisce, accordando i propri interessi personali con le possibilità offerte da un calendario fitto di suggestioni che iniziano al mattino e si concludono a notte fonda.

Le scelte degli organizzatori, che paiono di primo acchito molto plurali, rivelano alla fine un filo conduttore assai più robusto di quanto non si potesse pensare. Il festival racconta, attraverso i suoi autori e le loro opere, degli ultimi, degli esclusi, di coloro che devono faticosamente risalire la china di un’esistenza segnata dall’emarginazione, dalla malattia, dalla disabilità.

I migranti di Rabinowich possono confrontare il loro spaesamento con i tormenti dei personaggi di due autori balcanici, Gazmend Kapllani e Elvira Mujcic che hanno scelto di raccontare cosa succede quando chi è partito decide di ritornare e di confrontarsi con chi è rimasto e che, a Mantova, hanno posto sul tavolo della discussione anche la loro esperienza di scrittura in lingue diverse da quella che definiamo, frettolosamente a volte, come madre.

Ma i muri da superare non sono solo quelli delle frontiere e del rifiuto di chi, in qualche modo, quelle frontiere ha varcato. Daniele Mencarelli, presentato da Massimo Cirri, racconta in un libro, “Tutto chiede salvezza” divenuto anche sceneggiatura di una serie Netflix, che cosa succede nella famiglia che accoglie in sé un figlio affetto da una grave forma di disabilità e che si ritrova abbandonata in un deserto di sostegni da uno Stato che ha completamente abdicato al proprio ruolo. Il racconto delle esperienze all’interno di quel che resta dei servizi di neuropsichiatria infantile, che Mencarelli espone con analisi fredda e rabbiosa, è quanto di più terribile si è potuto sentire nei giorni di Mantova, così come è stato emotivamente coinvolgente sentire una grande attrice come Lella Costa leggere i brani del libro di un’altra scrittrice balcanica, Ivana Bodrozic, che racconta di una ragazza ridotta all’immobilità quasi totale da un incidente che rilegge, assieme a coloro che circondano il suo letto, il patimento di una relazione schernita e condannata con un’altra persona che sfugge alla morale comune sulle classificazioni di genere.

In questa folla di diversi e di reietti c’è posto per i carcerati, i cui drammi sono raccontati da Luigi Manconi e dai segni tracciati su un foglio da Zerocalcare. C’è posto per i conflitti e per i drammi che si affollano attorno a un mare, il Mediterraneo, raccontato da due storici come Alessandro Vanoli ed Egidio Ivetic, che ci riportano alle illusioni anche recenti che fecero immaginare questa distesa d’acqua come una sorta di spazio sempre più comune e dialogante, divenuto oggi, troppo spesso, il luogo dove il bagnante si gira dall’altra parte per non vedere chi sta morendo.

Un percorso quello che, chi scrive, ha costruito nel colossale catalogo del Festival che riserva pochi spazi alla speranza di un riscatto. Uno, meraviglioso, è quello che il giornalista Federico Buffa ha costruito con due grandissimi campioni sportivi, Veronica Yoko Plebani e Daniele Cassioli. Lei, straziata nel corpo da una meningite, oggi corre e vince in tutto il mondo le gare di triathlon. Lui, cieco dalla nascita, ha una quantità impressionante di titoli paraolimpici nelle specialità dello sci d’acqua. Hanno raccontato la loro storia, di come lo sport sia stato per loro il grimaldello per uscire dalla rassegnazione di una disabilità vissuta a volte persino, ammette Cassioli, come un’occasione per essere qualcosa di più e di diverso, di migliore.

Infine una notazione a margine di questa esperienza. Tre giorni passati in un mondo che applaudiva di cuore chi denunciava il dramma dei diversi, chiunque fossero, respinti, condannati, bruciati sul rogo di un’intolleranza che alimenta sé stessa di pregiudizi. La sensazione di trovarsi in una bolla, in un mondo diverso, in una comunità tanto lontana da quella che, fuori, legge soddisfatta l’elenco di epiteti insultanti con cui l’ideologia fascio patriarcale appella coloro che sfuggono alle sue categorie.