Culture | Storia

Vogliamo Trento (ma i trentini no)!

La sorte amara e paradossale dei soldati delle minoranze linguistiche nella prima guerra mondiale.

Ogni qualvolta una seria ricerca storica riesce a spazzar via quella densa melassa di retorica patriottico/nazionalista, di verità ufficiali costruite a posteriori e a raccontare quel che veramente avvenne cento anni fa, durante il primo conflitto mondiale, le sorprese non mancano mai.

Riemerge una verità sempre negata, occultata ad arte, che è poi quella formata dalle storie individuali di milioni di persone gettate, perlopiù contro la loro volontà, nell'immensa fornace di un conflitto voluto da pochi e il cui prezzo invece è stato pagato da una sterminata moltitudine di disgraziati.

È accaduto così anche in occasione del convegno svoltosi a Bolzano e organizzato presso la LUB  dal Centro di Competenza per la storia regionale. Una giornata di lavori dedicata ad un aspetto molto particolare e molto interessante della grande guerra: il ruolo che in essa giocarono su tutti i fronti i soldati appartenenti alle minoranze linguistiche, molto spesso doppiamente vittime della guerra nella quale il nazionalismo giocò un ruolo fondamentale. Coordinati da Andrea di Michele e Oswald Uberegger, i lavori hanno visto la presenza di relatori provenienti da diversi paesi che hanno illuminato storie tra le più diverse: quella dei soldati ebrei arruolati in quasi tutti gli eserciti combattenti, quella degli irlandesi in divisa inglese, quella degli australiani o degli neozelandesi che si batterono sul fronte turco. Centrale, evidentemente, la narrazione sulle minoranze coesistenti nel grande impero austroungarico e in particolare su quella italiana, divisa tra popolazioni trentine e giuliane qui è stata dedicata la prima sessione del convegno.

Qui sono emersi i particolari forse più interessanti. Lo storico trentino Alessio Quercioli, ad esempio, ha raccontato con dovizia di esempi di particolari come sia stata difficile la vita dei volontari trentini che, abbandonata la loro terra, raggiunta l'Italia, videro nella guerra il compimento di un sogno irredentistico che molti di loro covavano nell'animo da tempo. Avrebbero dovuto e potuto essere la punta di diamante, la componente più motivata di un esercito lanciato alla conquista di Trento e di Trieste ed invece furono esclusi, sospettati, umiliati. Il generale Cadorna, che aveva come modello di soldato un automa senza intelligenza e volontà da mandare al macello sui reticolati nemici, sospettava dei volontari proprio perché la loro adesione era segno di idee e speranze ben precise. Poi c'erano i sospetti. Quello che aleggiava sui socialisti, sia pur interventisti come Cesare Battisti e quello più generale che coinvolgeva i volontari trentini, considerati come potenziali traditori. In fondo, ragionavano le teste fine dello stato maggiore italiano, chi aveva tradito una volta poteva farlo di nuovo. E così, dopo la spedizione punitiva austriaca del maggio 1916 e di nuovo dopo la tragedia di Caporetto arrivarono gli ordini che confinavano i volontari trentini nelle retrovie. Su di loro incombeva persino la minaccia di essere mandati in Libia per combattere la guerriglia. Osteggiati dai grandi comandi, furono poco ben accetti anche nelle trincee. Chi li sospettava di connivenza col nemico e chi invece rimprovera loro quell'irredentismo considerato causa della guerra e delle sue disgrazie.

La delusione dei trentini passati all'Italia si specchiava in quella dei loro amici, dei loro parenti, dei loro fratelli che invece erano rimasti a casa e che si trovavano, sin dal 1914, a vestire la divisa dell'impero austroungarico. Nella sua relazione la storica Marina Rossi di Trieste ha raccontato le vicissitudini dei soldati partiti dal litorale e mandati sul fronte orientale. Anch'essi considerati come potenziali traditori, in specie dopo l'entrata in guerra dell'Italia, nel maggio del 1915, divisi gli uni dagli altri sparsi in reggimenti considerati sicuri per esser tenuti sotto controllo. Ed infine la sorte di chi, proprio sul fronte orientale, fu fatto prigioniero dai russi. Su queste vicende Simone Attilio Bellezza di Trento ha interrogato i diari di quegli internati, seguito il loro travaglio spirituale, il loro volgersi verso una nuova patria, l'Italia, cui prima spesso non avevano mai pensato, cresciuti in un mondo nel quale la patria era il paese, la valle. Le vicende di questi internati sono ormai abbastanza note. Molti furono fatti rimpatriare con un lunghissimo viaggio attraverso la Siberia, la Cina, gli Stati Uniti. Altri rimasero per sempre in Russia, altri ancora non rinnegarono l'Austria Ungheria e tornarono a casa solo dopo la fine del conflitto. Su tutti ancora una volta il sospetto: quello di portare con sé i germi di una peste considerata dai potenti ancor più pericolosa dell'epidemia di Spagnola che mieteva vittime in quegli anni, il contagio della rivoluzione bolscevica.