Culture | Intervista

“Interspace”: i nostri corpi al centro

Samira Mosca riporta al pubblico la sua performance artistica “Interspace”, regalando un percorso al cui centro ritroviamo il corpo, spesso vittima di narrazioni semplicistiche.
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Foto: Anna Cerrato
  • SALTO: Poco più di un anno fa ha presentato il progetto “Interspace” a Bolzano. Facciamo un po’ mente locale: com’è nata l’idea?

    Samira Mosca: Quello è stato il primo capitolo di Interspace, che possiamo dire sia stato l’inizio di questa pratica artistica che ho sviluppato nel 2017 mentre ero in Erasmus. In quel caso ho avuto la possibilità di esplorarne anche altre, oltre a quella della fotografia, che era la mia principale. Potevo partecipare ai vari laboratori che c’erano in Accademia e così ho conosciuto un professore che mi ha dato la possibilità di sperimentare con la ceramica. Lì ho tradotto una mia esperienza di danza classica in sculture, dando forma a delle parti del corpo che normalmente non consideriamo. Ho pensato che, quando quelle parti rimangono fisse in una posizione per molto tempo e per tua volontà, è la mente che le occupa e le sculture rappresentano materialmente quell’occupazione. Alla lavorazione della ceramica si è poi aggiunta una performance, all’interno della quale una persona che non aveva mai fatto danza classica ha indossato quelle sculture, percependo così fisicamente quegli spazi. La ceramica ha un certo peso, una certa temperatura e quelle sculture in particolare ti facevano stare in una posizione che non era naturale per il corpo, ma che con un allenamento costante viene percepita come naturale. Questo è stato l’inizio di quest’esperienza. 
     

    Partendo dal corpo il progetto affronta tematiche molto concrete e comuni ma, secondo Lei, può esserci il rischio che, essendo arte contemporanea, il tutto possa venire percepito come qualcosa di astratto?

    Sì, credo che soprattutto all’inizio non sia stato compreso e sia stato considerato come qualcosa di lontano, nonostante al centro ci sia il corpo. Il corpo è il mezzo attraverso il quale tutti facciamo esperienza e, infatti, queste ceramiche si possono fisicamente provare, come dicevamo. Però poi esiste anche la mente e il rapporto che la mente intrattiene col corpo viene spesso trascurato. L’astrazione della mente non viene percepita come qualcosa di reale e per questo viene spesso tenuta da parte. Istintivamente diamo molta attenzione a quello che accade al corpo ma lo facciamo con un approccio emergenziale, come quando ci capita di ammalarci. Quello che accade nella mente invece, come i pensieri, le percezioni o anche le sue malattie, spesso non trovano spazio nella nostra vita. Per questo motivo, credo, quando la si rappresenta artisticamente a volte si trova della resistenza nel pubblico. Nei due capitoli successivi, però, mi sembra ci sia stato uno sblocco in questo senso. Sento di essermi avvicinata di più al sentire comune e quindi vedo anche una maggiore partecipazione e comprensione. I commenti degli spettatori sono la prova.

    “Interspace” si è quindi evoluto. In cosa consisteva il secondo capitolo?

    Per “Interspace 2” avevo creato delle piccole sculture che ho realizzato come regalo per le persone che venivano a vedere la performance. Tutto nasce da un gesto che mi è stato insegnato dalla mia psicologa, che consiste nel toccare una parte della propria pelle in momenti di particolare stress, nei quali la mente si perde un po’, per ritrovare un contatto con il “qui e ora”. Le piccole sculture servivano proprio per questo, perché potevano essere sentite sulla propria pelle per creare questa esperienza e, una volta che le facevo provare alla persona, poi se la poteva portare con sé come regalo. 

  • L'evento: la locandina di Elle. Foto: ella
  • E così arriviamo al terzo capitolo di “Interspace”. Il debutto avverrà al festival “Ella”? 

    Allora, in realtà questo sarà un “Interspace 3.2”. La prima volta che ho realizzato questo capitolo è stato a Fortezza all’interno di una residenza artistica a gennaio di quest’anno. Si trattava di una residenza per donne di tutte le età ed era aperta a qualsiasi espressione artistica. Eravamo in diciotto donne e abbiamo lavorato proprio nel Forte di Fortezza e lì abbiamo esposto le nostre opere. Io ho realizzato dei vasi di ceramica indossabili. Nell’inaugurazione avevo realizzato una performance in cui indossavo questi vasi riempiendoli anche con del vischio, perché il vischio è una pianta parassitaria come a volte può esserlo la mente, se pensiamo ad esempio ai pensieri legati ai disturbi alimentari. All’interno di questo progetto artistico ho voluto riportare la mia esperienza all’interno dei disturbi alimentari, che ha portato a un forte dimagrimento che ha cambiato la forma del mio corpo. Dopo la performance ho fatto un sondaggio e sono venute fuori altre esperienze legate al cambiamento del corpo. Si è parlato di forme che esistevano e che adesso non esistono più, altre invece che esisteranno legate magari a una gravidanza, all’età o anche a delle malattie. 

    Come è arrivata a presentare questo progetto all’interno del festival “Ella”?

    Greta Marcolongo mi ha proposto di portare la performance sul palco in collaborazione con la ballerina Giulia Manica, allargando quindi l’esperienza anche ad altri corpi.

     

    “Quello che mi ha fatto molto strano in questo mio percorso è che quando ho capito di soffrire di un disturbo alimentare è stato difficile collegarlo all’immagine che mi aveva dato la scuola”

     

    In un progetto così delicato qual è il rapporto tra soddisfazione e fatica?

    Di fatica ce ne è stata tanta all’inizio, nella difficile comprensione di come arrivare nel modo giusto al pubblico. Sicuramente anche l’esporsi in prima persona ha richiesto una certa fatica. Io espongo un mio vissuto e quello che vivo tutt’ora, ma è proprio questo che fa sì che le persone si sentano libere di esporre a loro volta un proprio vissuto. Ognuno ha la propria storia ovviamente, però alcune dinamiche mantengono delle somiglianze. Rimane comunque il timore di dare una percezione sbagliata, di trattare il tema con troppa pesantezza o, al contrario, con troppa leggerezza, oppure di fornire facili soluzioni a proposito del tema dei disturbi alimentari. Proprio per questo, durante la serata di “Ella”, abbiamo voluto avere una con noi Raffaela Vanzetta, psicoterapeuta e coordinatrice centro specialistico disturbi alimentari Infes, perché era giusto portare anche una visione clinica e professionale. Con lei ci sarà un dialogo molto informale dopo la performance, mediato da Cornelia Dell’Eva, per parlare del percorso che ci ha portati fin qui. 

    Nell’immaginario collettivo l’idea di corpo e di genere si sta arricchendo di esperienze. È ormai scontato dire che anche nel maschile c’è una parte femminile, e viceversa. In un festival al femminile come “Ella” c’è quindi spazio anche per gli uomini?

    Riprendo le parole di Greta Marcolongo quando dice che il festival “Ella” si sta evolvendo a quel femminile che si trova in ognuno di noi. Poi, come società siamo abituati a categorizzare e questo spesso ci limita, perché ovviamente parlare di “femminile” non significa rivolgersi solamente ad un determinato pubblico ristretto che corrisponde a delle caratteristiche specifiche. “Ella” è un festival per tutte e per tutti. 

    Per quanto riguarda la prevenzione dei disturbi alimentari all’interno del percorso educativo, cosa ne pensa?

    Direi che le narrazioni che ti arrivano e ti rimangono impresse nella memoria su queste tematiche spesso non sono molto consapevoli, o perlomeno io non me ne ricordo. Quello che mi ha fatto molto strano in questo mio percorso è che quando ho capito di soffrire di un disturbo alimentare è stato difficile collegarlo all’immagine che mi aveva dato la scuola. Intendo dire che è vero che noi a scuola lo avevamo trattato, ma lo avevamo fatto come se fosse qualcosa di molto lontano dalla quotidianità. Erano situazioni che appartenevano allo stereotipo dei “matti” piuttosto che alla gente comune. Si analizzavano questi comportamenti apparentemente incomprensibili che potevano addirittura portare a conseguenze drammatiche, ma non si chiariva il fatto che sarebbe potuto succedere a tutti e che prevenire certi malesseri non è sempre possibile. Non possono esserci una prevenzione e sensibilizzazione efficaci per queste tematiche se non si capisce che sono qualcosa di molto comune e da cui nessuno può dirsi escluso a priori. E qui torniamo alla questione mente-corpo, perché anche in questi malesseri la psiche intrattiene dei legami con i geni, ad esempio. 

  • Foto: Mosca
  • Che ruolo hanno i social in tutto questo?

    L’esperienza che ho avuto con i social risale più o meno al 2010 e al tempo sui social non c’era la sensibilizzazione sulla salute mentale. In più io sono cresciuta nel momento storico in cui andavano di moda le modelle anoressiche e quell’immagine, riproposta quotidianamente, si è sedimentata nella memoria. Adesso, invece, nella mia esperienza social ho trovato due mondi assolutamente agli opposti che non dialogano. C’è il mondo della sensibilizzazione, in cui ognuno porta la propria esperienza e può essere sicuramente molto utile; poi c’è il mondo dell’idealizzazione del disturbo che invece può nuocere gravemente alle persone più sensibili al tema. Sto parlando di ambienti social molto facili da trovare che poi vengono favoriti anche dall’algoritmo, dal momento in cui si capisce che quelli sono i contenuti su cui ti soffermi di più. Ho scoperto così delle vere e proprie comunità di mantenimento del pensiero distruttivo, che fanno corrispondere la propria identità al proprio malessere. Questo accade spesso nei disturbi psichici in generale, si tende a identificarsi con la propria diagnosi, ma nell’anoressia questo accade forse più spesso. Quello che è un comportamento poco sano, se si viene in contatto con queste comunità, rischia di essere pensato come uno stile di vita da mantenere. 

    Questo progetto entrerà anche nelle scuole?

    Per ora no, però potrebbe essere interessante. È arrivata la proposta di collaborazione con le ragazze di Villa Eèa, il Centro dei Disturbi del Comportamento Alimentare di Bolzano, che verranno allo spettacolo. Poi si vedrà come si svilupperà il tutto. In generale quello che porto in questo progetto tramite la mia esperienza penso possa essere interessante per chi sta affrontando questo tema. Potrebbero nascere delle riflessioni importanti. Per me l’arte è stata utilissima per l’elaborazione che questo percorso richiede, ed è anche importante sottolineare che non ho voluto aspettare di guarire per portare questa narrazione. Ci tenevo a portare le varie fasi di un percorso che è ancora in atto. Poi l’obiettivo finale è sempre stato quello di arrivare a creare un dialogo aperto con le persone che entravano in contatto col progetto, così come quello c’è stato con la ballerina Giulia Manica che ha portato anche la sua esperienza col tema dei disturbi alimentari. Le scuole si presterebbero benissimo per il mantenimento e l’arricchimento di questo dialogo. Inoltre, se parliamo di prevenzione, questo progetto potrebbe essere un’occasione per gli studenti di incontrare una persona più vicina a loro e che ha vissuto il tema direttamente. 

    Possiamo dire che questa performance sia terapeutica, nel senso che si prende cura degli spettatori?

    Sì, e specifico che l’idea non è quella di portare un’esperienza solamente individuale, perché l’obiettivo è parlare del corpo in un modo che ci riguarda tutte e tutti. Inoltre, questa performance viene rappresentata con una delicatezza che mi rappresenta e che spesso però può essere vista anche come una debolezza, ma che invece credo sia la base per poter azionare un rapporto empatico col pubblico. Ci sono artisti che preferiscono sconvolgere le persone utilizzando lo shock come strumento di elaborazione, e ce ne sono altri invece che accompagnano delicatamente gli spettatori nel percorso. Facendo così si procede assieme e ci si rende conto che, come l’artista ha una responsabilità nei confronti del pubblico, allo stesso modo il pubblico ce l’ha nei confronti dell’artista.

  • La performance artistica “Interspace 3” si svolgerà domenica 10 novembre alle ore 18:00 all’auditorium dell’orchestra Haydn, in via Dante 15. 

    I biglietti si possono acquistare su www.ticket.bz.it oppure di persona presso la biglietteria del Teatro Comunale.