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Politics | Avvenne domani

Il popolo e la “par condicio”

Mamma RAI, commissioni paritetiche e norme di attuazione allo Statuto di autonomia.

La questione viene a galla, nel mare magnum dell’agitato dibattito politico altoatesino, il 13 maggio scorso mentre il Consiglio Provinciale discute la legge numero 107 che regola ex novo il sistema dei contributi pubblici ad alcuni settori dell’informazione. Tra gli ordini del giorno esaminati prima dell’inizio della discussione articolata ve n’è uno, presentato dall’esponente dei Freihetlichen Andreas Leiter Reber il cui titolo proclama il seguente alto concetto: “Comitato per i servizi radiotelevisivi. Gli altoatesini devono potersi fidare di Rai Südtirol”. Il documento consta di due punti. Nel primo viene prevista la creazione di una commissione incaricata di controllare e indirizzare l’informazione in lingua tedesca e ladina per garantirne il pluralismo e l’equilibrio politico, una sorta di commissione di vigilanza analoga a quella esistente in Parlamento a Roma. Al secondo punto si prevede invece di incaricare il già esistente Comitato richiamato dal titolo perché esegua periodicamente rilevazioni sugli stessi temi.

Nel presentare il documento l’esponente politico affonda con decisione il coltello della sua polemica, lasciando intendere come alla base di tutto vi sia la sensazione che forze politiche come quella da lui rappresentata siano gravemente svantaggiate nel computo delle presenze all’interno degli spazi informativi in lingua tedesca e ladina. Gli risponde, in aula, il Presidente Kompatscher che si dichiara d’accordo, a nome della giunta, con la proposta di incaricare il Comitato Provinciale per le comunicazioni (in sigla COPROCOM) di estendere e rendere più frequenti le analisi già compiute in passato sull’informazione radiotelevisiva. Chiede invece, per poter dare voto favorevole all’ordine del giorno, di eliminare la richiesta di creazione di una Commissione di controllo. La questione, dice, è complessa e, come sempre avviene per tutte le questioni complesse in Alto Adige, richiederebbe probabilmente una norma di attuazione dello Statuto.

L’ordine del giorno, così emendato, viene accolto e approvato senza neppure la necessità di passare al voto. La questione torna di attualità nei giorni scorsi durante una riunione della prima commissione del Consiglio. In assenza del presentatore dell’ordine del giorno si decide però di rinviare tutto a gennaio.

Aspettando l’anno nuovo possiamo però approfittare dell’occasione per un piccolo esercizio di memoria sui complessi intrecci giuridici e politici che legano l’esistenza del servizio pubblico in Alto Adige all’ipotesi di sovrapporvi commissioni di vario genere. Non ci faremo mancare, in conclusione, qualche considerazione su ciò che occorrerebbe chiedere ad un servizio pubblico radiotelevisivo per essere veramente considerato come tale.

Un decreto del ’47 e una norma del ’73.

Volendo partire proprio dall’inizio, bisogna prendere le mosse da un Decreto firmato dal Capo provvisorio dello Stato Enrico de Nicola il 3 aprile del 1947 e che prevedeva, tra l’altro, la nascita, presso le singole sedi Rai di commissioni incaricate di sorvegliare il sistema tecnico di diffusione, ma anche l’attuazione del piano trimestrale dei programmi radiofonici (allora di televisione non si parlava ancora) stabilito da un comitato a livello nazionale.

È a questi due organismi che fa riferimento una delle prime norme di attuazione del nuovo Statuto di autonomia, emanata con il DPR 1 novembre 1973 n. 691. È quella che regola in sostanza le competenze culturali assegnate con il Pacchetto alla Provincia. Con gli articoli 7 e 8 di questa norma di attuazione viene sostanzialmente richiamata in vita quella commissione prevista dal Decreto del 1947, avente competenze di sorveglianza sugli apparati di diffusione. Un organo più che altro tecnico, quindi, i cui membri, però, venivano nominati dal Consiglio Regionale e dovevano appartenere a tutti e tre i gruppi linguistici esistenti in Alto Adige. A questa commissione era però sottratto il compito di sorveglianza sull’esecuzione dei programmi nelle tre lingue approvati dalla Provincia.  Va subito chiarito che questa commissione non fu mai nominata e quindi non entrò mai in funzione. Per lungo tempo non furono neppure disciplinate le modalità l’approvazione dei programmi da parte della Provincia. Per quel che riguarda in particolare i programmi in lingua tedesca la norma prevede invece la figura del Coordinatore, nominato dalla RAI d’intesa con la Provincia, al quale, per l’appunto, è affidato il compito di proporre, coordinare, e sovraintendere all’esecuzione dei programmi di carattere culturale, artistico ed educativo indicati nell’articolo 8 del Decreto del 1947. Va detto che tutti i rimandi al Decreto del 1947 servono anche ad escludere in maniera assoluta che i vari meccanismi succedutisi nel tempo possano riguardare anche in modo residuale, sia da parte della Provincia che da parte del Coordinatore, i programmi di carattere giornalistico, per i quali il Decreto di de Nicola, all’articolo 11 (che, si badi bene, la norma di attuazione del 1973 non nomina neppure), prevede già l’istituzione di una apposita commissione parlamentare di vigilanza. A completare il quadro un cenno all’articolo 8 dello Statuto, laddove si precisa che tra tutte le competenze in campo culturale della Provincia è assolutamente esclusa “la facoltà di impiantare stazioni radiotelevisive”.

L’ultimo cenno indispensabile è quello che riguarda una sentenza della Corte Costituzionale del 15 luglio 1985 n. 206. Con essa viene respinto il ricorso della Provincia di Bolzano contro la delibera con la quale, quasi 10 anni prima, nel dicembre del 1977, era stata istituita la terza rete della Rai. Nel ricorso i legali della Provincia sostenevano tra l’altro che, con la nascita della rete regionale si venivano a ledere le competenze del Coordinatore responsabile dei programmi in lingua tedesca nonché, si diceva, anche dei programmi informativi. Una tesi totalmente respinta dal Governo che ricordava come in nulla fossero lese le competenze riguardanti i programmi di natura artistica, culturale ed educativa emergenti dalla norma di attuazione, mentre per quelle riguardanti i programmi di carattere giornalistico non si poteva parlare di una violazione in quanto queste erano totalmente escluse, sino dal Decreto del 1947. Il ricorso fu dichiarato inammissibile.

Da quel dì la situazione giuridica di fondo è rimasta sostanzialmente immutata, anche se, da una decina di anni è intervenuto, in base all’accordo di Milano, il patto per il quale la Provincia si è assunta l’onere statale di finanziare le trasmissioni RAI in lingua tedesca e ladina sollevando da questo peso lo Stato. Il tutto si è tradotto in una convenzione che prevede tra l’altro incontri periodici nell'ambito di una commissione paritetica RAI-Provincia Autonoma di Bolzano. Nella convenzione è peraltro previsto una sorta di silenzio assenso della Provincia che avrebbe facoltà di fare osservazioni sul palinsesto dei programmi che le viene comunicato dalla RAI. La sostanza del discorso resta però la stessa: i temi sul tavolo possono riguardare i programmi o le modalità di diffusione. È esclusa ogni competenza in materia di sorveglianza sui programmi giornalistici.

Tutto questo lungo ragionamento, che speriamo non abbia troppo tediato chi ci legge, porterebbe ad escludere che si possa anche solo pensare di poter insediare a Bolzano una commissione di vigilanza sulle redazioni in salsa sudtirolese. Per farlo non basterebbe una norma di attuazione. Bisognerebbe realizzare l’auspicio reso esplicito dall’ex Presidente Durnwalder durante i lavori del Konvent per la modifica dello Statuto e cioè togliere il divieto dell’articolo 8 dello Statuto stesso e permettere alla Provincia di creare una sorta di RAI locale sotto il controllo provinciale. Come si capirà il progetto, per ora almeno, è iscritto nel libro dei sogni.

Chi vigilerà sui vigilantes?

L’idea che il servizio pubblico radiotelevisivo debba essere attentamente sorvegliato dall’alto per fare in modo che esso conceda frammenti del suo spazio a tutti i soggetti politici che ritengono di avere diritto di definirsi tali è cosa antica e che si realizza, in tempi e con sistemi diversi, in molti paesi. Viene utile poter citare, all’uopo, quanto accade nella vicinissima Austria con un coinvolgimento diretto del partito fratello di quello che si appassiona al tema anche a Bolzano. In Italia, va detto non senza vergogna, la soluzione trovata con la riforma della Rai del 1975 è la peggiore che si potesse immaginare. I partiti si sono insediati all’interno dell’azienda non solo esprimendo i componenti di un consiglio di amministrazione che, a suo tempo, finì per assomigliare a un vero e proprio parlamentino, ma anche occupando militarmente le testate giornalistiche e le direzioni di rete. A completare il quadro proprio una commissione parlamentare bicamerale incaricata di fare da occhiuto controllore sull’operato di direttori e giornalisti.

A complicare ulteriormente il tutto l’avvento del principio della cosiddetta “par condicio” frettolosamente inventato all’epoca della travolgente avanzata berlusconiana per ovviare almeno in piccola parte al fatto di non aver bloccato, come sarebbe avvenuto in qualsiasi democrazia matura, il colossale conflitto di interessi esistente tra il proprietario di metà del sistema informativo radiotelevisivo e il capo di un partito lanciato alla conquista del potere. Non lo bloccò proprio perché si sarebbe dovuto render conto, in quel caso, della colossale anomalia rappresentata dai partiti grandi e piccoli che indicavano i vertici delle direzioni e delle testate della Rai.

Nacque così la “par condicio” per imporre almeno durante la campagna elettorale tempi contingentati per le apparizioni televisive dei vari esponenti di partito. All’inizio questi tempi erano proporzionali alla consistenza delle forze politiche. È per questo, anche se oggi nessuno se lo ricorda più, che la Rai inventò, per il più noto dei suoi talkshow, il sistema delle porte che introducevano gli ospiti man mano che scattava il limite per essi previsto. Oggi la regola è stata abolita ma la trasmissione di Bruno Vespa continua andare in onda.

Applicata rigidamente prima delle elezioni a tutti gli spazi informativi, la “par condicio” prevede che ogni apparizione di un politico venga computata a carico della forza politica di cui fa parte. Il sistema di rilevamento, realizzato da un osservatorio privato con sede a Pavia, è tanto minuzioso dal punto di vista formale quanto rozzo sul piano sostanziale. Se in un Tg compare la figura di un assessore indagato per malversazione, il tempo è considerato e annotato sui registri come quello di un suo collega che prende la parola per vantare i risultati ottenuti e chiedere il voto degli elettori.

Soprattutto però la “par condicio” ha iniettato nel sistema una filosofia di fondo secondo la quale un’informazione completa ed equilibrata debba includere obbligatoriamente le presenze e le dichiarazioni dei vari esponenti politici nessuno escluso.

Il servizio pubblico radiotelevisivo finisce così per abdicare ad una delle sue caratteristiche essenziali. Pagato con il canone versato dai contribuenti dovrebbe essere sollevato da qualsiasi forma di condizionamento sia da parte di coloro che pagano le inserzioni pubblicitarie, sia da parte del mondo politico. Avviene, come abbiamo visto, esattamente il contrario e il Parlamento, proprio attraverso l’opera della commissione si erge a giudice e controllore.

Non vi è stato l’esponente politico che, negli ultimi anni, non abbia proclamato la necessità di porre fine a questo sistema liberando la Rai dalla strisciante invadenza del sistema politico. Nei fatti, però, ci si comporta in modo diametralmente opposto e l’occupazione prosegue. Appare quindi del tutto singolare e deprecabile l’idea di riproporre in chiave locale l’idea di una commissione di controllo e vigilanza su un sistema informativo pagato, a Bolzano come a Roma, con il denaro pubblico e che solo al pubblico dei suoi utenti deve riferirsi come unico editore.