Kizito, la cooperazione, i profughi
“Chi si deve vergognare? In primo luogo chi gestisce questo flusso migratorio, cioè Frontex (l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea), a livello europeo, e gli apparati corrispondenti a livello italiano”. È il duro giudizio di Renato Kizito Sesana di fronte alla tragedia di Lampedusa. “Pure i respingimenti sono stati una cosa vergognosa. Credo che una gestione seria degli immigrati, aprendo dei canali possibili per l’immigrazione di chi scappa dalle guerre, non aumenterebbe in modo sensibile l’immigrazione in generale. Potrebbe esserci una gestione rispettosa e umana. In questi anni – racconta Kizito – abbiamo portato in Italia circa 200 giovani africani per alcuni periodi. Mai nessuno di loro ha voluto rimanere qui. Chi affronta i viaggi della disperazione è perché ha ragioni serie e profonde per farlo. I somali e gli eritrei, ad esempio, fuggono dalla guerra, dall’idea di poter essere uccisi in ogni momento, dalla mancanza assoluta di ogni prospettiva di vita”.
Renato Kizito Sesana, settant’anni, missionario comboniano, è in Africa dal 1977. Attualmente fa la spola tra Italia, Kenya, Zambia e altri Paesi. In Kenya, in particolare, con l’associazione Koinoina, si occupa del recupero dei cosiddetti “bambini di strada”. È giornalista, ha diretto il mensile Nigrizia e fondato New People, il periodico comboniano dell’Africa anglofona. È stato a Bolzano nei giorni scorsi per una serata organizzata dal Centro Pace.
I corridoi umanitari come funzionano? “Certo, non è facile”, ammette Kizito. “Prima di tutto va data sicurezza personale alle persone che sono in fuga. Che non siano continuamente sotto la minaccia del rimpatrio. Il caso va esaminato sul posto… Capisco che è difficile, dato anche l’alto livello di corruzione presente dappertutto, anche tra i funzionari delle Nazioni Unite”. Il missionario parla per esperienza diretta, potrebbe fare nomi e cognomi. “Forse bisognerebbe creare delle strutture ad hoc, immuni dalla corruzione, che possano esaminare i casi sul posto. Sul come ci devono pensare gli esperti, ma certo non si possono lasciare queste persone nelle mani delle organizzazioni criminali che attualmente organizzano i viaggi via mare”.
Si sono tenute nei giorni scorsi a Bolzano le Giornate della cooperazione allo sviluppo. Cosa ne pensa Kizito della cooperazione internazionale? “Le realtà nel settore sono molto diverse”, dice. “In genere io sono molto scettico sulla cooperazione internazionale così come è fatta ai livelli governativi. Vedo la cooperazione italiana e mi sembra che funzioni male. Cioè finisce per fare dei progetti che non servono a nessuno. Nel migliore dei casi servono alle ONG oppure ai politici e ai governi locali”. Diventa uno strumento di politica estera anziché di promozione umana. “I progetti grossi sono tutti da vedersi con grande sospetto”, continua il comboniano. “Ad esempio in Kenya c’è il progetto (italiano) di una farm che dura da più di trent’anni. Onestamente non credo che si possa dire che ci sono dei risultati in proporzione ai soldi (milioni di euro) che sono stati investiti”.
“È molto più facile che ci siano progetti fatti bene ai livelli più bassi: la cooperazione degli enti locali, quella fatta attraverso le chiese e i missionari. Magari sono un po’ dispersivi e frammentari, però arrivano alla gente. Provocano un cambiamento concreto. Per esempio la CEI, l’anno scorso, ha finanziato un progetto per la coltivazione della moringa (una pianta ad alto contenuto nutrizionale) e la cosa funziona già molto bene. Dà lavoro alla gente locale che impara e produce”.
Meglio dunque guardare a realizzazioni più piccole… “Sì, perché è più facile controllarle, coinvolgere la gente locale, senza che finiscano sotto il controllo di qualche ministero che poi non si sa bene come funzioni”.
Gli europei vanno ancora in Africa con l’atteggiamento di chi vuole insegnare agli altri come devono svilupparsi in base ai propri modelli? Kizito sorride: “Nel campo della cooperazione sono tutti maestri di politically correct. Quindi ti diranno tutti che loro rispettano i tempi di crescita locali e la cultura del luogo. Che questo avvenga davvero è tutto un altro discorso. C’è anche chi è seriamente impegnato in questo, ma tanti finiscono per fare ed esportare quello che abbiamo in testa noi. Però ci sono organizzazioni che cercano di fare davvero del bene. La cooperazione internazionale è un mare magnum dove si trova di tutto. Non si può generalizzare perché si rischia di screditare chi lavora veramente bene”. Ad esempio? “Come dicevo: la cooperazione locale è senz’altro molto meglio che non la cooperazione ai livelli più alti”.
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